INDIA: IL COVID SCONFIGGE L’UOMO CHE ABBRACCIAVA GLI ALBERI

Sembra paradossale la scomparsa il 21 maggio a 94 anni di Sunderlal Bahuguna, tra gli attivisti più noti in India a nel mondo per le sue battaglie a difesa dell’ambiente. A mettere fine al suo impegno e insegnamento non sono stati l’età o il logorio di una vita vissuta intensamente a segnata sicuramente da fatiche e rischi ma un nemico subdolo come il Covid-19. Una patologia frutto probabilmente di mutazioni spontanee in alcune specie animali ma soprattutto alla loro interazione con gli esseri umani con cui sono sempre più in competizione su spazi ristretti oppure – ipotesi ancora più inquietante – di una manipolazione di virus modificati proprio per testarne le potenzialità di diffusione nell’ambiente umano. In ogni caso, nulla che si sarebbe dovuto sviluppare secondo le convinzioni profonde di rispetto e convivenza tra natura e uomo che Bahuguna ha sempre sostenuto. “Ha speso la sua vita per il Gange e per l’Himalaya. Sono grato che sia stato cremato sulle rive del fiume e che sia sia spento in pace”, è stato l’omaggio del maggiore dei tra figli, Rajeev Nayan Bahuguna, che contiene l’essenza della vita del padre, spesa aderendo a convinzioni sviluppate anzitutto nella sua terra natale, l’Uttaranchal, alla nascita regione autonoma sotto il controllo britannico e in seguito parte dell’India indipendente. Una terra dal 2000 entrata a far parte come Uttarakhand degli Stati e Territori in cui l’India è amministrativamente divisa, che la tradizione indù ha per secoli individuato come “terra degli dei”, Devabhumi, per la varietà di luoghi sacri alle diverse espressioni dell’induismo, ma soprattutto per la sua natura insieme bellissima e a volte terrificante, dominata da colossi di pietra e ghiaccio e attraversata dall’alto corso del Gange, sacro a tutti gli indiani.

Rispettarne l’ambiente è quindi anzitutto un segno di devozione e di fede e promuoverne la conservazione è stato l’impegno di una vita per Bahuguna che qui era nato nel 1927. Dopo la gioventù segnata dall’impegno per l’indipendenza sotto la guida riconosciuta del Mahatma Gandhi, l’impegno a diffonderne le idee e i metodi in accordo con il rispetto ambientale sono state caratteristici delle sua “battaglie” successive. Quella contro l’intoccabilità o l’uso di alcolici, ma anche la fondazione del “movimento dell’abbraccio”, Chipko Andolan, ispirato da azioni spontanee delle donne che nel 1974, nelle aree collinari dell’Uttarakhand cercarono,di impedire il taglio di 2.500 alberi secolari guidate da Vimla, che sarebbe diventata moglie di Bahuguna per condividerne una scelta di vita quasi ascetica in una simbiosi di idee e azioni. Motivazioni religiose, ideali e pratiche si sono unite – nella migliore tradizione gandhiana – nell’azione di Bahuguna che per il suo movimento coniò il motto “Ecologia è economia permanente”. Salvaguardare l’ambiente montano risultava infatti già urgente mezzo secolo fa, quando l’India avviò un tumultuoso programma di sviluppo che avviò una devastazione ambientale che – insieme alle esigenze militari rivolte a contrastare lungo tutto la catena himalayana la minaccia cinese – ha coinvolto le aree montane a quote sempre più elevate e con opere sempre più ardite, con una estesa deforestazione per lasciare spazio a vie di comunicazione e grandi impianti per la produzione idroelettrica che hanno profondamente modificato la fisionomia di molte vallate e costretto le popolazioni a cambiare modi di vita secolari.

Proprio per documentare questo scempio che andava consumandosi, tra il 1981 e il 1983 Sunderlal Bahuguna guidò una marcia di 4.800 chilometri attraverso l’intera catena himalayana per raccogliere dati e testimonianze su quanto stava accadendo con la prospettiva di profonde conseguenze per molti milioni di persone. Il rifiuto del Padma Shri, ambito riconoscimento del governo indiano “fino a quando sull’Himalaya sarà abbattuto un solo albero” ha evidenziato l’impegno a mettere fine alla devastazione di una terra “sua” ma anche di tutti gli indiani. Un impegno che ha creato un ampio movimento di opinione contro gli aspetti più distruttivi dello “sviluppo” secondo le linee promosse dal governo di Delhi ma che non ha impedito, nonostante una lotta trentennale a tratti dura segnata da digiuni, azioni plateali di protesta e arresti, la costruzione della diga di Tehri, sul fiume Bhagirathi. La sua battaglia più intensa è stata sostanzialmente persa con l’avvio dal 2006 in varie fasi e non ancora completata di una produzione elettrica che a regime raggiungerà i 2.400 megawatt. Sempre combattivo, Bahuguna, riconoscibilissimo per la figura esile, per la bandana e i suoi abiti rigorosamente prodotti a mano, aveva accettato nel 2009 la seconda più alta onorificenza del Paese, il Padma Vibhusan, attribuito per il suo immenso contributo a una nuova coscienza ambientale. Non un cedimento alla popolarità, ma un omaggio all’impegno del movimento ambientalista indiano, ancora oggi tra i più attivi e incisivi al mondo, pure nella difficoltà di mediare tra salvaguardia della natura e sviluppo.

STEFANO VECCHIA

SUNITA NARAIN: CHE COSA INSEGNA LA PANDEMIA

L’India ha una lunga tradizione di impegno ecologista e nel tempo ha espresso personalità e indirizzi di intervento non solo originali ma anche efficaci, in un paese che ha vissuto gravi crisi ambientali ed è sottoposto costantemente ai rischi della natura e delle attività umane. Su questa linea, ma con un’apertura alle possibilità offerte dalla tecnologia, si pone Sunita Narain, direttrice del Centre for Science and Environment di Delhi e tra le maggiori sostenitrici dello sviluppo eco-compatibile. In questi giorni ha espresso sulla pubblicazione Down to Earth alcuni concetti di sicuro interesse generale.

“La pandemia da Covid-19 è il risultato del progressivo peggioramento del rapporto distopico con la natura. È anche il risultato di anni perduti che avremmo potuto investire nella salute pubblica e nella costruzione di una società più giusta dove i poveri non siano colpiti doppiamente, ma è lo stesso per i cambiamenti climatici e ogni altra questione che oggi ci sfida”.

“Troppo tempo è andato perso negando la realtà e non attivando una risposta complessiva e condivisa adeguata alla scala della crisi ambientale e ora il tempo è diventato una risorsa non solo indispensabile ma probabilmente insufficiente. Tutto questo, va detto con chiarezza, è soltanto l’inizio. Proprio mentre scrivo, i poveri del mondo – nel mondo ricco o emergente – sono coloro che soffrono maggiormente dato che già vivono al limite della sopravvivenza. Ci troviamo quindi nel peggiore dei tempi ma, come continuo a ripetere, la pandemia in corso e i cambiamenti climatici ci insegnano che noi siamo contemporaneamente nella posizione più forte e più debole per affrontarla”.

“Non possiamo negare o coprire il problema: le crisi che si moltiplicano renderanno il mondo più insicuro, spingeranno i governi ad essere più autoritari e intolleranti. Esiste anche un confine sottile tra quello che i governi considerano denunce non richieste e quelle che ritengono non necessarie in un crisi nazionale, con la sollecitazione all’autocensura per non indebolire l’impegno delle autorità! Questo però non possiamo farlo. Abbiamo bisogno di più informazione, non meno. Abbiamo anche bisogno di sapere che cosa sta succedendo sul campo in modo da potere meglio indirizzare le nostre azioni così da non fare errori o non ripeterli. Ricordiamo sempre che quella da Covid-19 è oggi una pandemia globale perché gli scienziati in Cina e nell’Oms non hanno avuto il coraggio di dire la verità. Renderci tutti accondiscendenti verso le decisioni del potere non farà scomparire il problema, inasprirà invece le molte crisi che non saremo in grado di affrontare”.

Stefano Vecchia