GIAPPONE: ANCHE IL MITO CONTRO IL CONTAGIO

Dovendosi confrontare con sfide eccezionali, il Giappone – secondo la sua tradizione shintoista arcipelago creato dagli dei – ricorre ancora al suo cuore ancestrale. Come l’apparizione del mitico pesce-gatto Namazu annuncerebbe eventi catastrofici, alla diffusione in corso del Covid-19 è connessa l’apparizione di un essere sovrannaturale, l’Amabie, una specie di tritone se lo riportiamo a immagini a noi più familiari, che emerge dal mare per annunciare o accompagnare un’epidemia.

Una serie di avvistamenti si sarebbe succeduta nei secoli, ma le prime immagini dell’essere metà uomo, metà pesce, con i lunghi capelli, il becco e un corpo ricoperto di squame arriverebbero da riproduzioni del XIX secolo di precedenti incisioni. L’unica relazione di un incontro ravvicinato con la creatura è quella di un funzionario governativo e sarebbe avvenuta presso le coste dell’isola di Kyushu. Datato dalla biblioteca dell’Università di Kyoto come risalente all’aprile 1846, il breve rapporto include una illustrazione e la descrizione dell’essere, accompagnate dalla sua profezia di sei anni di buoni raccolti come pure di una incombente minaccia di epidemia che la diffusione della sua immagine avrebbe contribuito a limitare.

La situazione attuale ha riportato alla mente la memoria dell’Amabie e si sono moltiplicate ovunque, su stampa, online o in forme artistiche e artigianali, persino in siti web ufficiali, le raffigurazioni fantasiose ma benevole di questo essere. Un altro esempio di come il mito e il mistero siano sempre prossimi alla realtà dei giapponesi, alimentando a volte timori ancestrali ma fornendo anche conforto e risposte davanti ad eventi terrificanti o inspiegabili.

Stefano Vecchia

MUMBAI: IL CONTAGIO E UNA LEZIONE DIMENTICATA

Un’epidemia di peste bubbonica colpì nel 1898 quella che oggi è Mumbai ma allora era Bombay, grande centro di traffici marittimi, splendida città in parte recuperata dal mare dagli inglesi colonizzatori. Allora le autorità coloniali intervennero sulla struttura urbana applicando strette regole sanitarie, distruggendo e ricostruendo interi quartieri di edilizia popolare con criteri d’avanguardia e aprendo ampi spazi al benefico flusso dell’aria marina. Una memoria e benefici presto perduti. Nell’India indipendente dal 1947, Bombay sarebbe diventata una delle città più inquinate dell’Asia, meta di una immigrazione che ha nel tempo occupato ogni spazio disponibile e reso problematico adeguare i servizi.

Oggi le zone più degradate di quello che è il cuore economico e finanziario dell’India accolgono almeno la metà dei 20 milioni di abitanti censiti, con un numero crescente di individui che vi arrivano espulsi da aree residenziali sempre più claustrofobiche e sempre più care anche per la crescente classe media. A Dharavi, forse un milione di residenti, per lungo tempo il più congestionato slum dell’Asia e dove la densità supera i 300mila abitanti per chilometro quadrato, i contagi da Covid-19 sono quasi 1.500, un centinaio i morti.

I quasi 23mila casi di coronavirus finora registrati a Mumbai equivalgono a un quinto del totale nazionale, ma i decessi (800) sono in percentuale superiore e si teme un’esplosione di contagi. La densità della popolazione è sicuramente una concausa della diffusione epidemica, insieme alla carenza di servizi igienici e di presidi medico-sanitari. Il divario tra i 186 dispensari registrati a Mumbai nell’ultimo censimento (2011), e gli 830 ritenuti necessari allora a soddisfare lo standard di uno ogni 15mila abitanti, non è mai stato colmato. Più che altrove nelle metropoli dell’India l’epidemia sta evidenziando i limiti di una situazione che l’urbanista Kedar Ghorpade, paragona a “una bomba sanitaria” innescata anche “dalla mancanza di comprensione degli ambienti umani”.

Stefano Vecchia

ASIA: LA LOTTA AL VIRUS LIMITA DIRITTI E DEMOCRAZIA

Repressione del dissenso e ulteriore riduzione delle libertà civili e dei diritti umani è quanto offrono diversi regimi asiatici nonostante la pandemia.

Questo vale per la Cambogia dove, cancellata l’opposizione, un parlamento piegato alla volontà del premier Hun Sen alla guida del paese da 35 anni gli ha conferito nell’occasione pieni poteri. Leggi emanate per l’occasione restringono la libertà di movimento e di riunione, accrescono i poteri di sorveglianza su mass media e Internet.

Di poco diversa la situazione nella confinante Thailandia, dove un regime che si è assicurato il controllo di istituzioni democratiche solo nella forma è erede del colpo di stato militare del maggio 2014. Minacce, pressioni e interventi della magistratura sono stati usati per liberarsi dell’opposizione, ma l’insoddisfazione popolare viene ora alimentata dalla povertà. Quasi la metà dei thailandesi ha chiesto di accedere al sussidio equivalente a 400 euro in un trimestre, negato a molti mentre risorse limitate per prevenzione e cura, spese militari aggiunte al disinteresse dell’oligarchia per la sorte della popolazione rischiano di fare esplodere il malcontento.

In Myanmar, la lotta al contagio che significativamente è stata accompagnata dalla censura imposta al personale medico e ai media, non ha fermato il braccio di ferro tra militari e governo, ancora perdente per quest’ultimo, riguardo le modifiche costituzionali in senso più rappresentativo. Nemmeno ha messo fine alle operazioni dell’esercito in aree sensibili abitate dalle minoranze Chin e Shan, come pure quelle contro i Rohingya nello stato Rakhine, ormai quasi svuotato da questa etnia.

Ancor più difficile ora nelle Filippine opporsi alle politiche populiste e alle tendenze illiberali del presidente Rodrigo Duterte che accompagnano il difficile impegno per contenere l’epidemia di Covid-19 in una nazione densamente popolata e che nella socialità ha una delle caratteristiche primarie. L’atteggiamento aggressivo verso l’opposizione alle politiche presidenziali si è intensificato con il sostegno delle forze di sicurezza e militari pienamente integrate nel sistema di patronato e nepotismo che sostiene Duterte. Sottoposto a un regime comunista, il Vietnam è stato esemplare per un intervento efficace contro il contagio e ha ampie possibilità di recupero economico tuttavia, come in Laos pure sottoposto alla dittatura del partito unico e dove la situazione resta incerta ma con una diffusione del contagio ufficialmente molto limitata, la repressione di diritti e dissidenza si è ulteriormente accentuata.

Stefano Vecchia

INDIA: HIMALAYA E STATI TRIBALI REFRATTARI AL COVID

Intere regioni dell’India sarebbero state appena sfiorate dall’epidemia. In maggioranza sono quelle himalayane e della “tribal belt” che raccolgono la maggioranza del 40 per cento dei distretti del paese considerati “Covid-19-free” dal Ministero federale per la Salute e il Benessere familiare.

Oltre la metà dei distretti di Himachal Pradesh e Uttarakhand non hanno riportato casi di contagio e se sei dei 12 distretti del primo sembrano immuni dal coronavirus, un altro ha finora avuto un solo caso. Nel secondo, su 13 distretti, sette sono esenti dal contagio e due hanno segnalato un solo caso ciascuno. Negli stati e territori nord-orientali l’84 per cento dei distretti in Arunachal Pradesh e Assam sono senza casi segnalati, mentre Manipur, Meghalaya, Mizoram e Tripura sono quasi del tutto senza casi.

Anche le regioni con la maggiore presenza di popolazione tribale vedono solo focolai limitati. Complessivamente, il 70 per cento dei distretti in Odisha (Orissa), Chhattisgarh, Jharkhand e Bihar risultano “puliti” dal contagio.

Per gli esperti, un ruolo giocano forse caratteristiche ambientali e genetiche ma – alla luce della situazione altrove – soprattutto una popolazione più sparsa e la marginalità rispetto ai flussi migratori.

Con 35mila casi di contagio e un numero di decessi di poco superiore al migliaio, l’India resta un caso atipico nel pur variegato scenario della pandemia da Covid-19. Restano attivi diversi focolai e in alcune città, come Mumbai, la situazione è critica soprattutto in rapporto alle limitate possibilità di intervento, tuttavia una riapertura che tenga conte della diversa intensità dell’infezione è l’ipotesi ancora in campo a partire dal 3 maggio.

Stefano Vecchia

CORONAVIRUS NEL SUD-EST ASIATICO 2

Cambogia. L’economia, già asfittica, sta soffrendo pesantemente il blocco imposto dal governo nonostante soli 122 casi accertati di contagio. Pressoché prosciugati gli arrivi dall’estero, cinesi soprattutto, e il turismo, la scarsità di materie prime comincia ad avere effetti pesanti sulla maggiore industria del paese, quella tessile, che produce per grandi brand internazionali. Cresce la protesta dei lavoratori del settore per l’obbligo della presenza in fabbrica pur mancando le protezioni essenziali.

Filippine. Deluso per la scarsa efficacia delle regole restrittive dei movimenti, il presidente Rodrigo Duterte pensa alla chiusura totale di Manila e minaccia la legge marziale su tutto l’arcipelago. Con 6.710 casi e 446 decessi finora la situazione rischia di precipitare, soprattutto tra la popolazione meno abbiente che le famiglie benestanti si sono impegnate e sostenere. Preoccupa anche la diffusione del Covid nelle carceri, con diversi morti e numerosi casi di contagio

Indonesia. Limitate e sovente disattese le misure preventive e gli appelli per fermare il tradizionale esodo del Ramadan nel più popoloso paesi islamico. Finora 7.418 e casi di contagio individuati e 635 i decessi. Polemiche ma soprattutto disagi per la burocrazia che ostacolo la distribuzione del reddito di pre-impiego (equivalente a circa 190 euro in quattro mesi) ai più poveri e ai disoccupati.

Malaysia. Nel paese che ha registrato 5.532 contagi e 93 decessi, anche le minoranze etniche si trovano in serie difficoltà per chiusure e mancanze di aiuti in questo tempo di pandemia. L’allarme delle autorità locali e delle organizzazioni non governative suggerisce il rischio della fame in mancanza di misure urgenti.

Myanmar. Ufficialmente 121 i contagiati e solo cinque i morti in una situazione di chiusura rigida decretata dalle autorità, ma preoccupa la situazione di un paese con strutture sanitarie limitate e in diverse regioni pressoché inesistenti. La situazione di conflitto in alcune aree, stati Rakhine (Arakan) e Chin soprattutto, rende difficile un controllo del contagio e eventuali interventi, ancor più per la stretta censura che riguarda zone coinvolte nelle attività militari.

Singapore. Superati i 10mila casi e con 11 decessi, il contagio ha ripreso slancio nella città-stato nonostante le misure di distanziamento sociale e la limitazione a iniziative produttive e commerciali. Preoccupa il crescente numero di quelli registrati tra stranieri in una realtà che ha un elevato numero di immigrati per lavoro. Ieri comunicati provvedimenti più severi, estesi fino al 1° giugno.

Thailandia: Già evidenti le conseguenze economiche dell’epidemia da Covid-19. Confermato l’elargizione di 5.000 baht (140 euro) per un solo mese anziché tre come annunciato in precedenza per ciascuno dei milioni di lavoratori del settore informale ormai inattivi. Mancano risorse , nonostante il taglio del 10 per cento dei bilanci ministeriali e anche per questo, il premier, l’ex generale Prayut Chan-ocha, ha chiesto il sostegno dei 20 super-ricchi del paese. Le forze armate chiamate a ridimensionare spese e piani di acquisto.

Vietnam. Chiusa già a gennaio la frontiera con la Cina, attuando uno stretto controllo sociale e una quarantena selettiva, fermando le scuole e indirizzando gli strumenti di protezione ove indispensabili, il paese è riuscito a superare la fase acuta dell’epidemia e ora dichiara 216 guariti su 268 casi di contagio. Resta tuttavia alta l’attenzione, con forti limitazioni agli arrivi dall’estero e il dispiegamento di medici, infermieri, neolaureati e studenti di medicina nelle aree più a rischio.

Stefano Vecchia

CORONAVIRUS NEL SUD-EST ASIATICO 1

In una regione che costituisce un importante snodo dei trasporti, dei commerci, del turismo e delle migrazioni e di cui fanno parte i 10 paesi dell’Asean, Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico, le problematiche sono in parte comuni. In quest’area abitata da 700 milioni di persone e caratterizzata da varietà etnica, linguistica culturale, religiosa e di sistemi politici crescono i casi di contagio da Covid-19, nonostante la difficoltà a delineare la portata della pandemia per la scarsità dei controlli data la generale limitatezza delle risorse sanitarie, quasi ovunque nettamente inadeguate.

Rispetto all’Europa o agli Stati Uniti, la popolazione locale ha il vantaggio dell’età media molto bassa: 30,2 anni, che scendono addirittura a 25,7 per le Filippine. Una condizione che limita i casi più gravi e facilita il recupero in caso di contagio,.

Nazioni-arcipelago come Indonesia e Filippine sono quelle maggiormente a rischio, anche per le difficoltà di intervento, ma solo poche migliaia di test forniti da Australia, Giappone, Corea del Sud sono finora stati eseguiti sui 76 milioni di abitanti in Cambogia, Laos e Myanmar, sottoposti a una quarantena che influisce pesantemente su buona parte della popolazione meno favorita.

Problema di rilievo, la sorte del gran numero di migranti economici rimasti bloccati fuori dai confini nazionali, nell’area o al suo esterno.

Sul piano delle emergenze umanitarie, preoccupa la sorte dei Rohingya, minoranza musulmana espulsa dal Myanmar dalle campagne militari degli ultimi anni che, con l’avvio della stagione più favorevole per prendere il mare, sono già deceduti a decine tentando la traversata dalle coste birmane o del Bangladesh diretti, soprattutto, verso la musulmana Malaysia. Difficile trovare approdi lungo la rotta, ancor più in piena allerta epidemica, ma la pressione dei trafficanti e le pesanti condizioni in cui i Rohingya si trovano nei centri di raccolta, incentivano la partenza.

Stefano Vecchia

GIAPPONE: QUASI AZZERATO IL TURISMO RECORD

Pesantissimo il calo dei visitatori in Giappone. Il -93 per cento di marzo rispetto a 12 mesi prima segna il dato peggiore dal 1964 e numericamente indica che solo 193.700 stranieri sono entrati nel Paese del Sol levante, in calo per il sesto mese consecutivo. Con scali portuali e aeroportuali ancora parzialmente aperti, anche se con controlli rigidi e quarantena applicata alla maggior parte degli arrivi, il bando all’ingresso nell’arcipelago riguarda ora i cittadini di 73 paesi e regioni, inclusi gli Stati Uniti da cui il mese scorso era arrivato il maggior numero di visitatori, 23mila.

Quasi totale lo stop degli arrivi da Repubblica popolare cinese, Taiwan e Corea del Sud che avevano alimentato negli ultimi anni un’espansione dell’industria turistica cresciuta – per quanto riguarda la platea internazionale – del 263 per cento tra il 2010 e il 2018 arrivando a 31,2 milioni di visitatori con l’aspettativa ormai fallita di arrivare in quest’anno olimpico a 40 milioni.

In vista di ospitare più di 15mila atleti per le Olimpiadi e Paralimpiadi 2020 ora rinviate al 2021, le terze più costose della storia con un bilancio di 25 miliardi di dollari, le autorità avevano promosso il turismo con incentivi e con un’apertura dei visti per molti paesi. L’arcipelago era stato così invaso pacificamente fino allo scorso febbraio da milioni di visitatori che avevano avuto modo di conoscere una realtà ben diversa da quella del 1964, quando il Giappone, per la prima volta sede olimpica, aveva appena iniziato a porsi in concorrenza con i paesi più avanzati.

Stefano Vecchia

GIAPPONE: RICORDARE FUKUSHIMA IN TEMPO DI PANDEMIA

A oltre nove anni dalla doppia catastrofe naturale terremoto-tsunami che attivò la peggiore crisi nucleare in Giappone e la seconda come gravità al mondo dopo quella di Chernobyl, ricordare Fukushima può sembrare retorico, oppure consolatorio. Nessun rapporto, nessuna parallelo possibile, ma allo stesso tempo le due crisi finiscono per intrecciarsi.

Il Giappone ha pagato pesantemente in termini di vittime (18mila) per l’immane disastro dell’11 marzo 2011, e in termini economici (300 miliardi di dollari) sia per la ricostruzione sia, ancora, per il sostanziale blocco del suo sistema energetico nucleare dopo l’avaria dei reattori della centrale numero 1 di Fukushima.

Da anni il paese aveva posto nelle Olimpiadi della prossima estate, ora spostate al 2021, le speranza di vedere esorcizzata quella catena di eventi e di lasciarsela alle spalle. Avviando così una nuova fase, libera dall’incubo nucleare nato con la devastante esperienza dei bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki il 6 e il 9 agosto 1945 e rilanciata dalla fusione delle barre di combustibile atomico nei reattori di Fukushima dove il contenimento delle radiazioni prosegue con costi e rischi altrettanto elevati.

Invece, l’aggressione del coronavirus ha modificato tutto questo, ha stoppato una crescita che sembrava inarrestabile del turismo che in un quinquennio si era incrementato fino a ipotizzare i 40 milioni di visitatori per l’anno in corso, ha aggiunto a una paura profonda, senza pari nell’era moderna ma ormai nota, con una più atavica perché invisibile e straniera.

Dal 7 aprile il Giappone ha avviato la fase del contrasto nazionale alla diffusione del Covid-19 e con ogni probabilità nei prossimi giorni e settimane si dovrà muovere sul percorso ormai noto di distanziamento sociale e ridimensionamento produttivo. Saprà probabilmente farlo con impegno e in modo ordinato, con lo spirito di sacrificio e l’efficienza che sono tratti distintivi dei giapponesi. Le certezze con cui il Giappone affronterà l’accumularsi delle sue crisi potranno segnare il confine tra una crisi da superare, per quanto difficile o dolorosa, o un nuovo incubo da integrare nella coscienza collettiva.

Stefano Vecchia

COREA DEL NORD UFFICIALMENTE IMMUNE DA CONTAGIO

Nella pandemia in corso con crescenti conseguenze anche sul continente asiatico, due paesi restano ufficialmente immuni dall’assalto del coronavirus: il Turkmenistan e la Corea del Nord, entrambi controllati da regimi autoritari e isolati da una censura impenetrabile.

La Corea del Nord non ha ammesso finora alcun caso di contagio tra i suoi 26 milioni di abitanti anche se già a gennaio ha chiuso il confine con la Cina e a marzo il suo leader Kim Jong-un si era fatto vedere con la mascherina protettiva durante test balistici. Ancora a marzo erano stati approntate strutture di cura e di quarantena, mentre veniva negato ogni arrivo di materiale sanitario specifico e forse di medici dall’alleato cinese.

Le voci raccolte in Corea del Sud, a sua volta colpita pesantemente dal contagio, con 10.384 casi registrati e 200 decessi, parlano – al di là di dati non verificabili su un’epidemia in corso – del rischio di una diffusione incontrollata se dovessero accendersi focolai in un paese con pochissime risorse oltre a quelle destinate alla leadership e alle forze armate, sicuramente impreparato ad affrontare un’emergenza sanitaria come in passato quelle alimentari.

La situazione accentua l’attesa per la riunione del parlamento annunciata dall’agenzia di stampa ufficiale Kcna per il 10 aprile. Per gli analisti della realtà nordcoreana sarebbe la riprova della volontà del regime di mostrare sicurezza e unità radunando 700 esponenti della sua leadership quando altrove nel mondo molti paesi stanno vivendo il picco del contagio e applicano un severo distanziamento sociale.

Stefano Vecchia

INDONESIA: E’ EMERGENZA, STOP A INGRESSI

Drastica ma non inattesa dopo le restrizioni dei trasporti aerei e marittimi annunciati fin dalla prima dichiarazione di allerta per due settimane il 14 marzo, rinnovata poi fino all’11 aprile, oggi è arrivata la decisione del presidente indonesiano Joko Widodo di dichiarazione lo “stato di emergenza sanitaria pubblica” e isolare di fatto il paese. La misura, come altre “mirate a impedire la diffusione del nuovo coronavirus” fa parte di provvedimenti presto in vigore a seguito della . A oggi sono 1.528 nell’immenso arcipelago indonesiano i positivi al Covid-19, in maggioranza concentrati nell’area della capitale Giakarta, con 136 decessi.

“Per affrontare l’impatto dell’epidemia, abbiamo scelto l’opzione di attuare restrizioni sociali su ampia scala”, ha detto Widodo presentando il provvedimento e, ha aggiunto, “dobbiamo imparare dall’esperienza di altri, ma non possiamo solo imitarli perché ciascun paese ha caratteristiche proprie”.

Poco prima della comunicazione presidenziale, la ministra degli Esteri, Retno Marsudi, aveva segnalato la decisione di proibire in tempi brevi l’ingresso e il transito di cittadini stranieri di qualsiasi provenienza, se non per residenti di lungo periodo nel paese, diplomatici o individui in possesso di particolari permessi. Una mossa che altri stati asiatici hanno già attuato, ma che contrasta spesso con le necessità di rimpatrio di consistenti comunità di emigrati che cercano in ogni modo di tornare ai luoghi d’origine d’origine. Sono loro, in buona parte, a essere indicati come responsabili di nuovi focolai di contagio in Cina, Corea del Sud e altrove nel continente.

Stefano Vecchia