COREA DEL NORD UFFICIALMENTE IMMUNE DA CONTAGIO

Nella pandemia in corso con crescenti conseguenze anche sul continente asiatico, due paesi restano ufficialmente immuni dall’assalto del coronavirus: il Turkmenistan e la Corea del Nord, entrambi controllati da regimi autoritari e isolati da una censura impenetrabile.

La Corea del Nord non ha ammesso finora alcun caso di contagio tra i suoi 26 milioni di abitanti anche se già a gennaio ha chiuso il confine con la Cina e a marzo il suo leader Kim Jong-un si era fatto vedere con la mascherina protettiva durante test balistici. Ancora a marzo erano stati approntate strutture di cura e di quarantena, mentre veniva negato ogni arrivo di materiale sanitario specifico e forse di medici dall’alleato cinese.

Le voci raccolte in Corea del Sud, a sua volta colpita pesantemente dal contagio, con 10.384 casi registrati e 200 decessi, parlano – al di là di dati non verificabili su un’epidemia in corso – del rischio di una diffusione incontrollata se dovessero accendersi focolai in un paese con pochissime risorse oltre a quelle destinate alla leadership e alle forze armate, sicuramente impreparato ad affrontare un’emergenza sanitaria come in passato quelle alimentari.

La situazione accentua l’attesa per la riunione del parlamento annunciata dall’agenzia di stampa ufficiale Kcna per il 10 aprile. Per gli analisti della realtà nordcoreana sarebbe la riprova della volontà del regime di mostrare sicurezza e unità radunando 700 esponenti della sua leadership quando altrove nel mondo molti paesi stanno vivendo il picco del contagio e applicano un severo distanziamento sociale.

Stefano Vecchia

ASIA MERIDIONALE DIVISA DAVANTI AL VIRUS

L’Asia meridionale, che ospita un quinto della popolazione mondiale, affronta le conseguenze del contagio da Covid-19 senza un sostanziale coordinamento, in prospettiva aggravando le conseguenze anche economiche dell’epidemia.

Prima fra tutti nella regione a provare a individuare una via d’uscita dall’emergenza successivamente alle tre settimane di blocco dei movimenti e delle comunicazioni iniziato il 24 marzo, è l’India. Mentre si moltiplicano i contagi (4.067 quelli comunicati) e i decessi (109) ma non con l’incidenza temuta, il governo di New Delhi parla di una “ripresa a più fasi”. Probabilmente differenziando le iniziative per aree in base geografiche alla situazione del 14 aprile, a partire dalla ripresa dei trasporti pubblici nei centri principali.

Complessivamente, nella settimana tra il 30 marzo e il 5 aprile il numero dei contagi in Asia meridionale (India, Pakistan, Afghanistan, Nepal, Bhutan, Bangladesh, Sri Lanka, Maldive) è raddoppiato e pochi ignorano la difficoltà a stilare una quadro preciso delle conseguenze dell’epidemia, da un lato, e dall’altro a garantire l’essenziale distanziamento sociale. Ad esempio, risulta difficile convincere i musulmani ortodossi a non frequentare le moschee in paesi islamici come Afghanistan, Pakistan e Bangladesh, mentre gruppi religiosi radicali, sia in India come in Pakistan, sono indicati come focolai di contagio.

Questi i dati ufficiali forniti ad oggi al di fuori dell’India: Pakistan, 3.277 contagiati, 50 deceduti; Afghanistan, 367 casi e 7 decessi; Sri Lanka, 176 contagiati e 5 morti; Bangladesh, 133 infettati e 13 deceduti; Maldive, Nepal e Bhutan hanno registrato finora rispettivamente 19, 9 e 5 casi di contagio ma nessun decesso.

Stefano Vecchia

COREA DEL SUD: CONTAGIATA PURE LA CULTURA

La realtà culturale sudcoreana, oltre che originale per le sue caratteristiche locali e anche per gli interessanti connubi con le esperienze internazionali, in grado di porsi in aperta competizione attraverso le varie espressioni della sua cultura popolare (come il K-pop) con le tendenze globali più seguite, è anche assai varia. Inevitabilmente, l’epidemia in corso di Covid-19 che ha provocato ad oggi nel paese estremo-orientale 9.976 casi di contagio e 169 decessi, pesa sensibilmente anche sull’ambito culturale e ancor più è previsto che lo farà nei prossimi mesi.

Sono molte le manifestazioni artistiche di vario genere – concerti, performance teatrali, mostre – cancellate o in via di cancellazione, con una forte ricaduta finanziaria e di immagine. La Federazione delle Organizzazioni artistiche e culturali della Corea, iniziativa privata che ha chiamato il governo a un intervento urgente, ha calcolato in 2.511 gli eventi cancellati o sospesi tra gennaio e aprile, con una perdita finanziaria stimata in 52,3 miliardi di won (circa 39 milioni di euro).

Preoccupanti le conseguenze sull’attività e sulle finanze degli artisti. L’89 per cento di quelli coinvolti nell’indagine alla base di un recente rapporto della Federazione, ha avuto o avrà un forte calo di reddito.

Stefano Vecchia

INDONESIA: E’ EMERGENZA, STOP A INGRESSI

Drastica ma non inattesa dopo le restrizioni dei trasporti aerei e marittimi annunciati fin dalla prima dichiarazione di allerta per due settimane il 14 marzo, rinnovata poi fino all’11 aprile, oggi è arrivata la decisione del presidente indonesiano Joko Widodo di dichiarazione lo “stato di emergenza sanitaria pubblica” e isolare di fatto il paese. La misura, come altre “mirate a impedire la diffusione del nuovo coronavirus” fa parte di provvedimenti presto in vigore a seguito della . A oggi sono 1.528 nell’immenso arcipelago indonesiano i positivi al Covid-19, in maggioranza concentrati nell’area della capitale Giakarta, con 136 decessi.

“Per affrontare l’impatto dell’epidemia, abbiamo scelto l’opzione di attuare restrizioni sociali su ampia scala”, ha detto Widodo presentando il provvedimento e, ha aggiunto, “dobbiamo imparare dall’esperienza di altri, ma non possiamo solo imitarli perché ciascun paese ha caratteristiche proprie”.

Poco prima della comunicazione presidenziale, la ministra degli Esteri, Retno Marsudi, aveva segnalato la decisione di proibire in tempi brevi l’ingresso e il transito di cittadini stranieri di qualsiasi provenienza, se non per residenti di lungo periodo nel paese, diplomatici o individui in possesso di particolari permessi. Una mossa che altri stati asiatici hanno già attuato, ma che contrasta spesso con le necessità di rimpatrio di consistenti comunità di emigrati che cercano in ogni modo di tornare ai luoghi d’origine d’origine. Sono loro, in buona parte, a essere indicati come responsabili di nuovi focolai di contagio in Cina, Corea del Sud e altrove nel continente.

Stefano Vecchia

INDIA CHIUSA PER COVID, POVERI A RISCHIO

L’India si avvicina ai 900 casi di contagio e ad oggi sono 19 le vittime accertate. Nonostante l’assedio ai supermercati nelle città e la pressione di milioni di migranti interni che cercano di tornare alle località d’origine, sembra reggere il blocco totale del paese, garantito da ingenti forze di polizia e militari. Il governo ha affiancato a questa misura drastica in vigore da mercoledì scorso un piano di sostegno alimentare e finanziario a favore di 800 milioni di abitanti, ma elevati sono i rischi che le difficoltà nella distribuzione di generi di prima necessità e la mancanza di fonti certe di reddito o dei documenti necessari per accedere agli aiuti possano pesare soprattutto sull’immenso settore informale (450 milioni di addetti stimati) e su due milioni di senza fissa dimora.

Le disuguaglianze economiche e le diverse possibilità si ripropongono nel sistema sanitario, con istituzioni di eccellenza destinate ai più abbienti mentre zone depresse del paese sono praticamente prive di servizi medico-assistenziali. Nelle congestionate aree urbane, già normalmente per la maggioranza dei poveri risulta impossibile accedere a cure adeguate.

Il governo copre, con l’1 per cento del prodotto interno lordo, il 27 per cento delle spese sanitarie (contro il 56 per cento della Cina). Dal 2018 è garantito l’accesso alla sanità di base per 500 milioni di indiani con un piano nazionale che coinvolge il settore pubblico e privato. Tuttavia, in vista dell’acuirsi del contagio, il governo ha chiesto alle strutture private di indirizzare le risorse disponibili al contenimento della pandemia, limitando quindi le possibilità di cura dei meno abbienti alla sola sanità pubblica. Le autorità hanno anche sollecitato a eseguire il test per individuare l’eventuale positività al coronavirus nelle strutture private al costo di 4.500 rupie (52 euro), ben oltre la possibilità di molti.

Stefano Vecchia

IL MYANMAR “SCOPRE” IL CONTAGIO

Il Myanmar (già Birmania) scopre il coronavirus, con tre casi registrati dal 23 marzo dopo che varie fonti avevano indicato l’individuazione di almeno un cittadino cinese positivo già a fine gennaio. Da allora, però i segnali del contagio erano stati limitati alla chiusura della maggior parte dei posti di frontiera terrestri e a un filtro sempre più stretto ai voli in arrivo. Fino all’annuncio, la settimana scorsa della quarantena obbligatoria per passeggeri provenienti da 14 paesi, misura incrementata il 25 marzo con la decisione di imporre 14 giorni di isolamento per tutti – birmani e stranieri – autorizzati a sbarcare nei soli aeroporti di Yangon, Mandalay e la capitale Naypyitaw.

Il paese è però tutt’altro che sigillato e questo vale per le decine di migliaia di birmani emigrati per lavoro all’estero, a partire da quelli nella confinante Thailandia che cercano di rientrare prima che Bangkok dichiari il blocco totale, ma anche i cinesi, a cui si deve il maggior flusso turistico nel paese sommato a un gran numero di imprenditori, commercianti, consulenti e specialisti impegnati nella costruzione di infrastrutture.

Da sempre il rapporto tra il Myanmar e il vicino cinese è intenso e, sino alla fine del regime nel 2011, sostenuto dall’apparato militare che ancora oggi, nonostante il consolidamento di istituzioni democratiche con un ruolo essenziale garantito alla Premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi e alla sua Lega nazionale per la democrazia, conservano ministeri chiave, come quelli delle Risorse naturali e delle Frontiere, che garantiscono forti benefici economici e il controllo di aree strategiche.

In questo panorama si situa la difficile situazione del Nord-Ovest birmano. Ieri l’organizzazione non governativa Fortify Rights (FR) ha chiesto al governo la fine immediata di ogni restrizione all’uso di Internet negli stati Rakhine e Chin, svuotato il primo dell’etnia musulmana Rohingya da operazioni militari che la comunità internazionale ha denunciato come “genocidio” e il secondo che è campo di battaglia tra esercito e milizie etniche. Militarizzazione e censura impedirebbero, secondo FR, un’efficace azione preventiva e di cura in caso di epidemia conclamata.

Stefano Vecchia

“ITALIAN CONNECTION” PER IL SUPER-VIRUS

Ci risiamo! Ci aveva provato dieci giorni fa il ministro della Sanità, Anutin Charnvirakul, a cercare tra gli stranieri gli untori responsabili dell’epidemia di Covid-19 in Thailandia, trovandosi subissato di proteste e insulti e costretto per questo a chiudere il sito Facebook dove aveva postato le sue accuse insensate.

Ci riprova oggi un “eminente medico” citato dal quotidiano Thai Rath che ha incolpato gli italiani, e in particolare un fantomatico “super-diffusore” che avrebbe acceso la miccia del contagio nell’ex Paese del Sorriso che l’atteggiamento benevolo e la leggerezza del vivere ha perso da tempo sostituita da repressione, divaricazione sociale e xenofobia.

Secondo il dottor Manoon Leechawengwong, “esperto di malattie infettive del Vichaiyut Hospital di Bangkok”, il paese, che prima di marzo era stato colpito in modo molto limitato da una versione debole del virus (“di provenienza asiatica”, sottolinea), ha visto nelle ultime settimane la diffusione della forma del virus proveniente dall’Italia assai più contagiosa. Responsabile un individuo contagiato da un parente arrivato dal nostro paese (se un viaggiatore italiano o un thailandese al rientro non è specificato). Colpa sua se 50 individui sono stati contagiati durante una competizione di boxe thailandese il 6 marzo e questi a loro volta si sono incaricati (involontariamente si presume) di diffondere il morbo in modo esponenziale (721 i casi di contagio e un decesso finora).

Sulla sua pagina Facebook, il medico ha segnalato con preoccupazione le prospettive dell’epidemia in Thailandia se non si interverrà in modo tempestivo. Ovviamente sono state anche per lui numerose le critiche e le manifestazioni di scetticismo per una tesi che ancora una volta, più che certezze scientifiche o azioni in linea con l’emergenza, mostra la xenofobia e la mancanza di senso di responsabilità altrettanto diffuse.

Dopo settimane in cui i dati ufficiali erano rimasti fissi su 30-40 casi “lievi” di contagio, da qualche giorno si verifica una crescita esponenziale di casi, non diversa però da quella di altri paesi in cui ci si trova di fronte a una sottovalutazione ufficiale del problema e a direttive non solo confuse ma sostanzialmente ignorate. Tant’è vero che se Bangkok e le province limitrofe sono state messe in sicurezza chiudendo ritrovi, ristoranti, grandi magazzini e scuole fino al 12 aprile, nessuno ha pensato di impedire l’esodo della popolazione che diffonderà ovunque il contagio, finora concentrato nella capitale.

Il dottor Leechawengwong, con la sua acredine verso gli stranieri, è espressione di un paese guidato dai militari e dagli interessi elitari che vede approfondirsi le sue ombre e che va perdendo i tradizionali alleati, investitori e visitatori per finire sempre più nell’abbraccio cinese.

Stefano Vecchia

TOKYO CREDE ANCORA AI GIOCHI

Lo sbarco, ieri, della fiaccola olimpica a Tokyo è stato un ritorno atteso nel Paese del Sol Levante dopo 56 anni. Un evento altamente simbolico arrivato però in un tempo sfavorevole allo sport e alla socializzazione.

A febbraio il turismo in Giappone ha registrato il 58,3 per cento in meno rispetto a un anno prima, segnale che l’obiettivo dei 40 milioni di arrivi nell’anno olimpico è ormai lontano e che il settore, che negli ultimi cinque anni aveva quintuplicato le presenze straniere con un boom eccezionale è avviato a una crisi significativa come tutto l’indotto.

Ovviamente è anzitutto il risultato dell’epidemia di Covid-19 in corso, anche se la frenata dell’economia cinese e le ripercussioni regionali e globali delle tensioni tra Pechino e Washington avevano iniziato da mesi a limitare un flusso che sembrava inarrestabile.

Pochi giorni fa l’ex premier Taro Aso, parlamentare e influente esponente del Partito liberal-democratico aveva parlato di Olimpiadi ormai “segnate”, ma il governo di Tokyo ha oggi confermato la volontà di proseguire nel percorso olimpico. Non senza resistenze crescenti, quelle più esplicite di Stati Uniti, Regno Unito, Norvegia e Brasile che hanno chiesto il rinvio, ma le richieste si moltiplicano anche da parte di paesi-membri del Comitato olimpico internazionale (Cio) e di atleti.

Il presidente del Cio, Thomas Bach, ha parlato di una decisione “prematura” se si cancellassero o rinviassero ora le gare ma ha ammesso che il comitato sta “considerando scenari diversi” davanti alla pandemia. Ogni decisione sarà comunque presa in accordo con l’Organizzazione mondiale della Sanità. Insomma, porte ancora aperte per i Giochi olimpici di Tokyo dal 24 luglio al 9 agosto e quelli paralimpici dal 25 agosto al 6 settembre, tuttavia l’ultimatum inviato dal Comitato olimpico francese a quello giapponese con l’indicazione del 31 maggio per una decisione definitiva sullo svolgimento sembra di giorno in giorno meno arbitrario. In gioco non è solo l’immagine del paese, ma anche tra 0,7 e 1,5 per cento del Prodotto interno lordo per l’anno in corso.

Stefano Vecchia

Come l’Asia affronta la pandemia

Focolaio primario della pandemia, l’Asia corre ai ripari con provvedimenti di urgenza isolando aree abitate oppure potenziando i sistemi sanitari e la coscientizzazione delle popolazioni. Tuttavia la preoccupazione è elevata, soprattutto per le realtà più afflitte da povertà, repressione politica o incompetenza. Diffuso è il timore che saranno le classi medie già falcidiate dalla crisi economica e i più poveri e indifesi a subire le conseguenze maggiori della pandemia.

I pochi casi ufficiali di contagio, da poche decine a qualche centinaio, con il numero massimo (900) in Malaysia accertati nei dieci paesi membri dell’Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico (Asean) che conta 630 milioni di abitanti, sembrano più frutto di sottovalutazione che di reale diffusione del Covid-19. Ovunque, ampie differenze di reddito e possibilità tra una esigua minoranza e la maggior parte degli abitanti, qui come altrove in Asia, non potranno che amplificare le conseguenze per i gruppi meno favoriti.

“Le problematiche abitative sono ora sulla linea del fronte contro la diffusione del coronavirus, avere una abitazione mai come ora può fare la differenza per la vita o la morte”. Con queste parole Leilani Farha, Inviato speciale delle Nazioni Unite per il diritto all’abitazione, ha sollecitato tutti i governi a prendere misure efficaci per evitare che altri vadano ad aggiungersi al gran numero di individui che vivono in condizioni abitative precarie (1,8 miliardi nel mondo) che li espongono ora maggiormente al contagio. A sua volta, un rapporto della United Nations Economic and Social Commission for Asia and the Pacific segnala con chiarezza i rischi di recessione in aree vulnerabili, al punto che la pandemia potrebbe più che raddoppiare il numero degli asiatici in povertà estrema (sotto 1,9 dollari al giorno) prima previsto in 56 milioni entro il 2030.

Si temono anche i rischi di involuzione democratica e la restrizione di diritti e libertà già ridotte o sotto pressione in diversi paesi. Non a caso, in una Hong Kong che registra un record di contagi di ritorno, in buona parte attribuibile al rientro di cittadini e stranieri dall’estero, il prolungato braccio di ferro tra democratici e governo locale (supportato da Pechino) è andato sottotraccia ma l’accademico e attivista Benni Tai parla dello stato di diritto attuale come di “un morto che cammina”. Altrove, come in Thailandia, Cambogia, Corea del Nord – la stessa Repubblica popolare cinese – a rischio sono anche regimi repressivi messi alla prova da un’emergenza che si associa alla recessione economica già in corso. Infine, crescono i timori delle minoranze religiose in realtà, come la Malaysia, il Myanmar o l’India, dove la crisi potrebbe incentivare xenofobia e suprematismo a base religiosa.

Stefano Vecchia

Asia: Emergenza coronavirus 19.03

AUSTRALIA e NUOVA ZELANDA sono gli ultimi tra i molti paesi che hanno chiuso l’ingresso ai non residenti.

GIAPPONE e THAILANDIA, tra gli altri, hanno invece imposto la quarantena all’arrivo.

GIAPPONE. Si alza di livello e ormai ha raggiunto i vertici politici, sollecitati anche dall’estero, il dibattito sul rinvio o la sospensione delle Olimpiadi e Parolimpiadi di luglio-agosto.

FILIPPINE. Prosegue la messa in sostanziale quarantena di metà della popolazione. Il governo giapponese ha deciso l’invio di 100mila kit per testare la presenza del coronavirus.

CINA e HONG KONG affrontano un crescente numero di casi importati dall’estero, in maggioranza cinesi di ritorno, 34 per la prima. Si parla di “seconda ondata” del contagio, peraltro prevista in casi di pandemia.

COREA DEL SUD. Crescono i mini-focolai (ad esempio in case di riposo o comunità religiose) con un rialzo nel numero dei contagi quotidiani dopo alcuni giorni di stasi.

GLOBALMENTE salgono a 17mila miliardi le perdite borsistiche e, con le nuove iniziative di quantitative easing della Banca centrale europea, a 1.900 miliardi i provvedimenti anti-crisi economica attivati finora nel mondo.

INDONESIA. Alle prese con la richiesta frenetica di provvedimenti di contenimento del contagio e di test, ma con 270 milioni di abitanti e strutture sanitarie già inadeguate, è ora uno dei paesi a maggior rischio e, con 19 decessi, quello finora più interessato da casi letali nell’Asia sudorientale.

MALAYSIA. La federazione si conferma il paese con finora il più alto numero di contagi del Sud-Est asiatico, 900.

VIETNAM. Avviato un piano di contenimento della mobilità, a partire dalla capitale Hanoi.

Stefano Vecchia