IMPARARE DA HONG KONG

Oggi la popolazione di Hong Kong è tornata in piazza, ma oggi non è più ieri, quando il confronto per quanto impari era tra una polizia sempre più militarizzata e incattivita (probabilmente nemmeno più composta di soli cittadini locali ma anche miliziani estranei al territorio e al suo stato di diritto). Dalla scorsa mezzanotte, infatti Hong Kong è finita sotto la Legge per la sicurezza nazionale della Repubblica popolare cinese la cui applicazione sulla piccola da rilevante Regione autonoma speciale è stata approvata ieri con un percorso breve e occulto. Oggi chi manifesta e viene fermato in piazza oppure viene prelevato nei negozi, negli uffici e nelle abitazioni senza più certezza di legalità, rischia accuse gravissime e pene fino all’ergastolo.

Oggi, giorno che ricorda anche il 23° anniversario della fine del controllo coloniale e il ritorno alla Cina, Hong Kong ha perso la sua identità garantita da trattati, leggi e diritto internazionale, si trova sottoposta a una legge non solo severa ma soprattutto arbitraria e legata a doppio filo alle necessità di controllo del Partito-Stato. Oggi a Hong Kong è repressione, paura, arresti a catena, arretramento dei movimenti democratici, fuga per chi sa per certo che in 24 ore entità e ignote perlopiù agli stessi cinesi, nel segreto e nel bilanciamento degli interessi interni del regime hanno cancellato i diritti di sette milioni di individui. Cancellato anche la parvenza di normalità che il Paese pretende di dare di sé all’esterno, certo che le opportunità economiche, ideologiche o strategiche convinceranno alcuni e che il timore di ritorsioni taciterà altri.

A Hong Kong, da marzo dello scorso anno una parte consistente della popolazione: studenti, professionisti, impiegati e operai si sono prima opposti al tentativo del governo locale di imporre una legge sull’estradizione vista come strumento repressivo, che avrebbe aperto le porte all’invio in Cina – quando richiesto dalle autorità cinesi – di individui critici verso il regime o impegnati a sostenere l’autonomia di Hong Kong, ma davanti alla brutalità della polizia e all’intransigenza del governo riguardo le richieste di maggiore democrazia, diritti e giustizia la protesta è cresciuta fino a raggiungere un carattere quasi insurrezionale.

Almeno, così è stata intesa a Pechino, dove nel frattempo l’arretramento economico, le pressioni statunitensi e – buon ultimo – l’insorgere della pandemia rendeva essenziale per il presidente Xi Jinping agire per mantenere il potere (quasi) indiscusso sul Paese e propagandarla all’estero. L’incremento della repressione (nonostante la straripante vittoria dei gruppi democratici nelle elezioni distrettuali dello scorso novembre e una protesta “fattasi acqua”, ovvero trasformatasi in eventi quotidiani perlopiù simbolici e iniziative semi-clandestine) ha spinto Xi all’azione. Troppo alta stava diventando la pressione internazionale, troppo aperta la perplessità verso il ruolo della leadership cinese nel controllo e nell’evoluzione della pandemia di Covid-19, chiaro ormai il fallimento della politica “un paese, due sistemi” applicata a Hong Kong e da un trentennio alla base dei rapporti tra Pechino e Taiwan, ma qui ormai negata dalle vittorie elettorali del fronte indipendentista. Xi ha scelto così di porre Hong Kong e il mondo davanti al “fatto compiuto”, imponendo una legge tre le più reazionarie al mondo a una delle società più liberali dell’Asia.

Qualcuno si sarà chiesto le ragioni dell’impegno dei democratici di ogni età, censo e professione a cercare il rispetto degli accordi e dei diritti nonostante i rischi (va ricordato che sono stati quasi 10mila gli arresti in 14 mesi di disordini, migliaia i feriti e decine le vittime diretto o indirette delle proteste e della repressione, enormi i danni materiali e economici). La risposta è probabilmente che davanti al degrado delle libertà e delle possibilità nell’ex colonia britannica l’opposizione democratica ha puntato su un cambio di regime a Pechino. La stessa speranza che oggi si confronta sulle strade di Hong Kong con le forze repressive più rodate e potenti al mondo chiedendo che il mondo ricordi Tiananmen e non lasci sola Hong Kong in cambio di promesse, lusinghe, affari, debiti e sovranità limitata.

Anche stamattina, mentre il buio è sceso su Hong Kong, emergono da noi giustificazioni per il “sistema-Cina” che avrebbe garantito benessere a centinaia di milioni di cinesi pur mancando di concedere loro “benefit” come diritti e democrazia e rendendo immensamente ricchi e potenti pochi clan e famiglie che controllano sogni e le aspirazioni di 1,4 miliardi di esseri umani e garantiscono a minoranze, fedi e critici un trattamento che la storia giudicherà ma che ora troppi fingono di ignorare. Mi chiedo quanti tra noi sarebbero pronti davvero a scambiare tutto questo con la nostra litigiosa e spesso inefficiente democrazia (o altre democrazie)… La fine delle ideologie consente di ignorare i diritti e i sogni di altri? Può l’orientamento ideologico di chi invece un’ideologia pretende ancora di avere ignorare il buco nero delle libertà e dei diritti in Estremo Oriente?

Stefano Vecchia

ASIA: LA LOTTA AL VIRUS LIMITA DIRITTI E DEMOCRAZIA

Repressione del dissenso e ulteriore riduzione delle libertà civili e dei diritti umani è quanto offrono diversi regimi asiatici nonostante la pandemia.

Questo vale per la Cambogia dove, cancellata l’opposizione, un parlamento piegato alla volontà del premier Hun Sen alla guida del paese da 35 anni gli ha conferito nell’occasione pieni poteri. Leggi emanate per l’occasione restringono la libertà di movimento e di riunione, accrescono i poteri di sorveglianza su mass media e Internet.

Di poco diversa la situazione nella confinante Thailandia, dove un regime che si è assicurato il controllo di istituzioni democratiche solo nella forma è erede del colpo di stato militare del maggio 2014. Minacce, pressioni e interventi della magistratura sono stati usati per liberarsi dell’opposizione, ma l’insoddisfazione popolare viene ora alimentata dalla povertà. Quasi la metà dei thailandesi ha chiesto di accedere al sussidio equivalente a 400 euro in un trimestre, negato a molti mentre risorse limitate per prevenzione e cura, spese militari aggiunte al disinteresse dell’oligarchia per la sorte della popolazione rischiano di fare esplodere il malcontento.

In Myanmar, la lotta al contagio che significativamente è stata accompagnata dalla censura imposta al personale medico e ai media, non ha fermato il braccio di ferro tra militari e governo, ancora perdente per quest’ultimo, riguardo le modifiche costituzionali in senso più rappresentativo. Nemmeno ha messo fine alle operazioni dell’esercito in aree sensibili abitate dalle minoranze Chin e Shan, come pure quelle contro i Rohingya nello stato Rakhine, ormai quasi svuotato da questa etnia.

Ancor più difficile ora nelle Filippine opporsi alle politiche populiste e alle tendenze illiberali del presidente Rodrigo Duterte che accompagnano il difficile impegno per contenere l’epidemia di Covid-19 in una nazione densamente popolata e che nella socialità ha una delle caratteristiche primarie. L’atteggiamento aggressivo verso l’opposizione alle politiche presidenziali si è intensificato con il sostegno delle forze di sicurezza e militari pienamente integrate nel sistema di patronato e nepotismo che sostiene Duterte. Sottoposto a un regime comunista, il Vietnam è stato esemplare per un intervento efficace contro il contagio e ha ampie possibilità di recupero economico tuttavia, come in Laos pure sottoposto alla dittatura del partito unico e dove la situazione resta incerta ma con una diffusione del contagio ufficialmente molto limitata, la repressione di diritti e dissidenza si è ulteriormente accentuata.

Stefano Vecchia