INDIA: IL COVID SCONFIGGE L’UOMO CHE ABBRACCIAVA GLI ALBERI

Sembra paradossale la scomparsa il 21 maggio a 94 anni di Sunderlal Bahuguna, tra gli attivisti più noti in India a nel mondo per le sue battaglie a difesa dell’ambiente. A mettere fine al suo impegno e insegnamento non sono stati l’età o il logorio di una vita vissuta intensamente a segnata sicuramente da fatiche e rischi ma un nemico subdolo come il Covid-19. Una patologia frutto probabilmente di mutazioni spontanee in alcune specie animali ma soprattutto alla loro interazione con gli esseri umani con cui sono sempre più in competizione su spazi ristretti oppure – ipotesi ancora più inquietante – di una manipolazione di virus modificati proprio per testarne le potenzialità di diffusione nell’ambiente umano. In ogni caso, nulla che si sarebbe dovuto sviluppare secondo le convinzioni profonde di rispetto e convivenza tra natura e uomo che Bahuguna ha sempre sostenuto. “Ha speso la sua vita per il Gange e per l’Himalaya. Sono grato che sia stato cremato sulle rive del fiume e che sia sia spento in pace”, è stato l’omaggio del maggiore dei tra figli, Rajeev Nayan Bahuguna, che contiene l’essenza della vita del padre, spesa aderendo a convinzioni sviluppate anzitutto nella sua terra natale, l’Uttaranchal, alla nascita regione autonoma sotto il controllo britannico e in seguito parte dell’India indipendente. Una terra dal 2000 entrata a far parte come Uttarakhand degli Stati e Territori in cui l’India è amministrativamente divisa, che la tradizione indù ha per secoli individuato come “terra degli dei”, Devabhumi, per la varietà di luoghi sacri alle diverse espressioni dell’induismo, ma soprattutto per la sua natura insieme bellissima e a volte terrificante, dominata da colossi di pietra e ghiaccio e attraversata dall’alto corso del Gange, sacro a tutti gli indiani.

Rispettarne l’ambiente è quindi anzitutto un segno di devozione e di fede e promuoverne la conservazione è stato l’impegno di una vita per Bahuguna che qui era nato nel 1927. Dopo la gioventù segnata dall’impegno per l’indipendenza sotto la guida riconosciuta del Mahatma Gandhi, l’impegno a diffonderne le idee e i metodi in accordo con il rispetto ambientale sono state caratteristici delle sua “battaglie” successive. Quella contro l’intoccabilità o l’uso di alcolici, ma anche la fondazione del “movimento dell’abbraccio”, Chipko Andolan, ispirato da azioni spontanee delle donne che nel 1974, nelle aree collinari dell’Uttarakhand cercarono,di impedire il taglio di 2.500 alberi secolari guidate da Vimla, che sarebbe diventata moglie di Bahuguna per condividerne una scelta di vita quasi ascetica in una simbiosi di idee e azioni. Motivazioni religiose, ideali e pratiche si sono unite – nella migliore tradizione gandhiana – nell’azione di Bahuguna che per il suo movimento coniò il motto “Ecologia è economia permanente”. Salvaguardare l’ambiente montano risultava infatti già urgente mezzo secolo fa, quando l’India avviò un tumultuoso programma di sviluppo che avviò una devastazione ambientale che – insieme alle esigenze militari rivolte a contrastare lungo tutto la catena himalayana la minaccia cinese – ha coinvolto le aree montane a quote sempre più elevate e con opere sempre più ardite, con una estesa deforestazione per lasciare spazio a vie di comunicazione e grandi impianti per la produzione idroelettrica che hanno profondamente modificato la fisionomia di molte vallate e costretto le popolazioni a cambiare modi di vita secolari.

Proprio per documentare questo scempio che andava consumandosi, tra il 1981 e il 1983 Sunderlal Bahuguna guidò una marcia di 4.800 chilometri attraverso l’intera catena himalayana per raccogliere dati e testimonianze su quanto stava accadendo con la prospettiva di profonde conseguenze per molti milioni di persone. Il rifiuto del Padma Shri, ambito riconoscimento del governo indiano “fino a quando sull’Himalaya sarà abbattuto un solo albero” ha evidenziato l’impegno a mettere fine alla devastazione di una terra “sua” ma anche di tutti gli indiani. Un impegno che ha creato un ampio movimento di opinione contro gli aspetti più distruttivi dello “sviluppo” secondo le linee promosse dal governo di Delhi ma che non ha impedito, nonostante una lotta trentennale a tratti dura segnata da digiuni, azioni plateali di protesta e arresti, la costruzione della diga di Tehri, sul fiume Bhagirathi. La sua battaglia più intensa è stata sostanzialmente persa con l’avvio dal 2006 in varie fasi e non ancora completata di una produzione elettrica che a regime raggiungerà i 2.400 megawatt. Sempre combattivo, Bahuguna, riconoscibilissimo per la figura esile, per la bandana e i suoi abiti rigorosamente prodotti a mano, aveva accettato nel 2009 la seconda più alta onorificenza del Paese, il Padma Vibhusan, attribuito per il suo immenso contributo a una nuova coscienza ambientale. Non un cedimento alla popolarità, ma un omaggio all’impegno del movimento ambientalista indiano, ancora oggi tra i più attivi e incisivi al mondo, pure nella difficoltà di mediare tra salvaguardia della natura e sviluppo.

STEFANO VECCHIA

THAILANDIA: ANCORA RIMANDATA IN DEMOCRAZIA

Altre manifestazioni nel fine settimana a Bangkok e altrove mostrano il crescente distacco tra la volontà di tanta parte della popolazione thailandese e l’attuale leadership del paese. Una situazione che ha riflessi in tante valutazioni. Tra queste la retrocessione da “parzialmente libera a “ non libera” da parte di Freedom House. Non si parla di lockdown indotto dalla pandemia, ma di una crescente febbre da autoritarismo e repressione. A certificarlo nel suo rapporto annuale sulla libertà nel mondo l’organizzazione indipendente statunitense che monitora la democrazia in 210 paesi del mondo. Al centro della valutazione negativa riferita al 2020 è anzitutto la dissoluzione da parte della magistratura del Future Forward Party, l’unico a potersi opporre, per il forte sostegno popolare, a un parlamento e a un governo controllati – con o senza divisa – dai militari e dai gruppi di interesse che ad essi si appoggiano o con essi condividono benefici e potere.

Nell’assegnare alla Thailandia un punteggio di 30 su 100 (in discesa da 32 su 100 del 2019), l’organizzazione ha tenuto anche conto della costante repressione subita dai gruppi democratici. Tuttavia anche per il 2019, anno in cui il punteggio era risalito per le elezioni, le prime dopo il colpo di stato del 2019, Freedom House aveva sottolineato come “i risultati annunciati sei settimane dopo il voto” fossero segnati da molte irregolarità, con schede “perdute” e un conteggio iniziale poi rivisto. La mossa di poco successiva di ridefinire la distribuzione dei seggi, riducendo quelli disponibili per le opposizioni a favore dei gruppi filo-militari, aveva suscitato non pochi dubbi sulla sorte delle nuova democrazia thai e acceso le proteste ancora in corso. Significativa anche la sottolineatura di Freedom House sulla monarchia, tesi assai delicata nel paese ma centrale nella comprensione della situazione attuale e nel processo di storico che l’ha concretizzata, portando a “una combinazione di deterioramento della democrazia e di frustrazione sul ruolo della monarchia”.

Una situazione che sta provocando una reazione diffusa e crescente di molti gruppi della società civile, con alla testa gli studenti universitari, che chiedono la riscrittura della Costituzione in vigore dopo il colpo di stato del 2014, l’uscita di scena dei militari dalla gestione del paese ma anche un aperto dibattito sull’istituzione monarchica che troppo spesso ai militari si è appoggiata o di cui ha subito i condizionamenti. “Come risposta alle proteste guidate dai giovani, il regime ha recuperato le tattiche autoritarie così familiari nel paese, inclusi arresti arbitrari, intimidazione, accuse di lesa maestà e persecuzione degli attivisti”, ha ricordato Freedom House, mentre “la libertà dell’informazione è limitata, non sono garantiti giusti processi mentre vige l’impunità per i reati commessi contro gli attivisti”.

Stefano Vecchia

THAILANDIA: LA PROTESTA ALZA LA POSTA

Dal 14 ottobre, la protesta che ha ripreso slancio lo scorso agosto a Bangkok ha visto un salto di qualità. Non hanno avuto alcun effetto deterrente finora l’imposizione dell’emergenza, la possibilità dichiarata dal primo ministro – l’ex generale golpista Prayut Chan-ocha – del coprifuoco se necessario, l’arresto di una cinquantina di leader degli oppositori e limitate azioni di forza. Decine e forse centinaia di migliaia di thailandesi, perlopiù giovani, da una settimana hanno aperto un fronte sempre mutevole in più aree della capitale e altrove nel paese, con raduni preceduti e accompagnati da uno tsunami di informazioni e di solidarietà via social. Sull’esempio di Hong Kong, si “fanno acqua”, senza una leadership o una strategia costante, chiedono riforme e dialogo ma sanno che non possono perdere slancio nonostante i rischi.

D’altra parte, con le loro azioni e reazioni costantemente monitorate all’interno e all’estero, i militari e i loro proxy nella politica e al governo sanno che il paese sta esaurendo la tolleranza verso la vocazione golpista delle forze armate, la loro corruzione, inefficienza a governare e insensibilità che la pandemia in corso ha evidenziato. Due dei “poteri forti”, militari e monarchia, sono oggi in discussione. Un terzo – le poche famiglie che controllano in regime di monopolio immense ricchezze – rischierebbe contraccolpi se la società civile riuscisse a attivare la riforma di una delle società più ineguali dell’Asia. Per la prima volta, in piazza è posto anche senza mezzi termini il problema della legittimazione del sovrano. Il 68enne Rama X ha una personalità diversa dal padre, scomparso nel 2016 dopo un settantennio di regno in cui si era guadagnato una devozione quasi assoluta sacrificando per la nazione tanto della sua vita privata, avviando preziose iniziative di sviluppo e stringendo rapporti personali con tanti leader mondiali.

A molti tra i 70 milioni di sudditi, il sovrano attuale che vive soprattutto all’estero sembra impegnato, più che a ascoltare il paese, a salvaguardare le proprie prerogative, a soddisfare le sue passioni e a gestire i beni della casa reale stimati in almeno 40 miliardi di dollari. Sempre più però anche a sottrarsi all’influenza degli uomini in divisa che dalla fine della monarchia assoluta nel 1932 hanno preteso un ruolo di primo piano. Ne consegue che anche il rapporto tra monarchia e forze armate è diventato problematico, perché i militari vivono ora con disagio l’associazione con l’istituzione in crisi di credibilità, che sembra distanziarsi dalla loro tutela e potrebbe non garantire più la necessaria legittimazione al loro controllo sul paese.

Stefano Vecchia

INDIA: CONTAGI GIU’ MA QUASI PRIMATO

Scende il tasso di contagi in India, tuttavia la difficoltà dei controlli su campioni significativi della popolazione e l’impossibilità di applicare chiusure totali date le necessità economiche e occupazionali alimentano ancora significativamente l’epidemia.

Se la diffusione del Covid-19 ha visto un rallentamento sensibile dai massimi di settembre attestandosi su una media inferiore ai 75mila, l’India si avvicina a un testa a testa con gli Stati Uniti (ora a 7,8 milioni di casi) per il primo posto nella poco lusinghiera classifica dei contagi dopo avere superato sabato 10 ottobre i sette milioni complessivi. Se simile è al momento il numero di decessi quotidiani (attorno ai mille, per l’India in calo, per gli Usa in risalita) a favore del paese asiatico resta un numero di morti che è circa la metà (108mila) di quello statunitense.

Dato spesso sottovalutato all’estero – con gli stessi limiti di individuazione, estensione e parametri di riferimento di quello dei contagi e dei decessi – cresce in India anche il tasso di recupero, con oltre sei milioni di guariti. Pur se con intensità inferiore al mese scorso quando si è avuto il picco dei contagi, l’utilizzo dei test di positività ha coinvolto finora 90 milioni di indiani.

L’India sta anche predisponendo una propria campagna di vaccinazioni, centrata in parte su produzione locale e in parte su acquisizioni dall’estero, ma al momento punta anzitutto sulla prevenzione. “Dobbiamo lavorare in modo aggressivo per assicurarci che durante i mesi invernali e durante le festività natalizie i casi di coronavirus non aumentino drasticamente”, ha affermato il dottor Randeep Guleria, consulente sanitario del governo. Una preoccupazione sollecitata anche dall’avvicinarsi delle varie ricorrenze legate, nella seconda metà del mese, alla festività del Dussehra, tra le più partecipate del calendario indiano.

Stefano Vecchia

INDIA-CINA: DISCORDIA SOCIAL

Non solo gli Usa di Trump. L’offensiva statunitense verso Tik Tok, social media con origini e proprietà cinesi, coincide con simili azioni in corso in India. Il governo guidato da Narendra Modi ha con Pechino un contenzioso militare su aree himalayane che si trascina da decenni ma che si è riacceso negli ultimi mesi con un rapido e consistente riarmo nelle zone di confronto più diretto.

Per questo, oltre a rafforzare il dispositivo bellico ai confini, negli ultimi mesi New Delhi ha decretato il blocco di Tik Tok, piattaforma che permette la diffusione di brevi video (che in India ha – meglio, aveva – il 30 per cento degli 800 milioni di utenti) e di una sessantina di altre applicazioni di provenienza cinese. Provvedimenti che accompagnano altre iniziative per ridurre la dipendenza della popolazione indiana da beni e servizi del grande vicino e rivale e che cercano ci rompere l’accerchiamento strategico di Pechino che si avvale della sua influenza sui confinanti Pakistan, Nepal, Bangladesh e Myanmar.

Il timore segnalato dal governo, è che Tik Tok, WeChat e altre applicazioni forniscano dati sensibili direttamente al sistema di sicurezza del Partito comunista cinese, ancora più grave per un paese in diretto confronto strategico e commerciale.

Caute le reazioni di Zhang Yiming, fondatore di ByteDance che ha sviluppato Tik Tok per l’estero e invece ospita per il mercato cinese su server distinti un’applicazione-sorella, Douyin. Il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Wang Wenbin ha invece più volte ha ricordato come Pechino si “opponga fermamente” alla “presunzione di colpevolezza per certe aziende” riguardo la sicurezza degli investimenti stranieri all’interno e l’utilizzo all’estero di tecnologia “made in China”.

Stefano Vecchia

IMPARARE DA HONG KONG

Oggi la popolazione di Hong Kong è tornata in piazza, ma oggi non è più ieri, quando il confronto per quanto impari era tra una polizia sempre più militarizzata e incattivita (probabilmente nemmeno più composta di soli cittadini locali ma anche miliziani estranei al territorio e al suo stato di diritto). Dalla scorsa mezzanotte, infatti Hong Kong è finita sotto la Legge per la sicurezza nazionale della Repubblica popolare cinese la cui applicazione sulla piccola da rilevante Regione autonoma speciale è stata approvata ieri con un percorso breve e occulto. Oggi chi manifesta e viene fermato in piazza oppure viene prelevato nei negozi, negli uffici e nelle abitazioni senza più certezza di legalità, rischia accuse gravissime e pene fino all’ergastolo.

Oggi, giorno che ricorda anche il 23° anniversario della fine del controllo coloniale e il ritorno alla Cina, Hong Kong ha perso la sua identità garantita da trattati, leggi e diritto internazionale, si trova sottoposta a una legge non solo severa ma soprattutto arbitraria e legata a doppio filo alle necessità di controllo del Partito-Stato. Oggi a Hong Kong è repressione, paura, arresti a catena, arretramento dei movimenti democratici, fuga per chi sa per certo che in 24 ore entità e ignote perlopiù agli stessi cinesi, nel segreto e nel bilanciamento degli interessi interni del regime hanno cancellato i diritti di sette milioni di individui. Cancellato anche la parvenza di normalità che il Paese pretende di dare di sé all’esterno, certo che le opportunità economiche, ideologiche o strategiche convinceranno alcuni e che il timore di ritorsioni taciterà altri.

A Hong Kong, da marzo dello scorso anno una parte consistente della popolazione: studenti, professionisti, impiegati e operai si sono prima opposti al tentativo del governo locale di imporre una legge sull’estradizione vista come strumento repressivo, che avrebbe aperto le porte all’invio in Cina – quando richiesto dalle autorità cinesi – di individui critici verso il regime o impegnati a sostenere l’autonomia di Hong Kong, ma davanti alla brutalità della polizia e all’intransigenza del governo riguardo le richieste di maggiore democrazia, diritti e giustizia la protesta è cresciuta fino a raggiungere un carattere quasi insurrezionale.

Almeno, così è stata intesa a Pechino, dove nel frattempo l’arretramento economico, le pressioni statunitensi e – buon ultimo – l’insorgere della pandemia rendeva essenziale per il presidente Xi Jinping agire per mantenere il potere (quasi) indiscusso sul Paese e propagandarla all’estero. L’incremento della repressione (nonostante la straripante vittoria dei gruppi democratici nelle elezioni distrettuali dello scorso novembre e una protesta “fattasi acqua”, ovvero trasformatasi in eventi quotidiani perlopiù simbolici e iniziative semi-clandestine) ha spinto Xi all’azione. Troppo alta stava diventando la pressione internazionale, troppo aperta la perplessità verso il ruolo della leadership cinese nel controllo e nell’evoluzione della pandemia di Covid-19, chiaro ormai il fallimento della politica “un paese, due sistemi” applicata a Hong Kong e da un trentennio alla base dei rapporti tra Pechino e Taiwan, ma qui ormai negata dalle vittorie elettorali del fronte indipendentista. Xi ha scelto così di porre Hong Kong e il mondo davanti al “fatto compiuto”, imponendo una legge tre le più reazionarie al mondo a una delle società più liberali dell’Asia.

Qualcuno si sarà chiesto le ragioni dell’impegno dei democratici di ogni età, censo e professione a cercare il rispetto degli accordi e dei diritti nonostante i rischi (va ricordato che sono stati quasi 10mila gli arresti in 14 mesi di disordini, migliaia i feriti e decine le vittime diretto o indirette delle proteste e della repressione, enormi i danni materiali e economici). La risposta è probabilmente che davanti al degrado delle libertà e delle possibilità nell’ex colonia britannica l’opposizione democratica ha puntato su un cambio di regime a Pechino. La stessa speranza che oggi si confronta sulle strade di Hong Kong con le forze repressive più rodate e potenti al mondo chiedendo che il mondo ricordi Tiananmen e non lasci sola Hong Kong in cambio di promesse, lusinghe, affari, debiti e sovranità limitata.

Anche stamattina, mentre il buio è sceso su Hong Kong, emergono da noi giustificazioni per il “sistema-Cina” che avrebbe garantito benessere a centinaia di milioni di cinesi pur mancando di concedere loro “benefit” come diritti e democrazia e rendendo immensamente ricchi e potenti pochi clan e famiglie che controllano sogni e le aspirazioni di 1,4 miliardi di esseri umani e garantiscono a minoranze, fedi e critici un trattamento che la storia giudicherà ma che ora troppi fingono di ignorare. Mi chiedo quanti tra noi sarebbero pronti davvero a scambiare tutto questo con la nostra litigiosa e spesso inefficiente democrazia (o altre democrazie)… La fine delle ideologie consente di ignorare i diritti e i sogni di altri? Può l’orientamento ideologico di chi invece un’ideologia pretende ancora di avere ignorare il buco nero delle libertà e dei diritti in Estremo Oriente?

Stefano Vecchia

COREE: 70 ANNI DI PACE ARMATA

Oggi è il 70° anniversario dell’inizio della Guerra di Corea, ma tutto questo tempo non è bastato per portare una vera pace nella Penisola coreana, divisa da una Zona smilitarizzata invalicabile ma non da un confine riconosciuto. Il regime nordcoreano continua a cercare sostegno finanziario e riconoscimento internazionale utilizzando la memoria dei due milioni e mezzo di caduti nei tre anni del conflitto e il costante sviluppo della tecnologia nucleare e missilistica. Il Sud cerca una soluzione che possa favorire sviluppo condiviso e pace duratura ma non può ignorare la costante minaccia del Nord, le diversità di regimi, ideologie e stili di vita e il disinteresse crescente verso una Corea unificata.

A bloccare la riconciliazione, la pace e l’unificazione sono anzitutto le strategie delle grandi potenze: la Cina e l’Unione Sovietica un tempo (la Russia ha oggi un ruolo più defilato) da un lato, dall’altro gli Stati Uniti. In secondo luogo sono i contrasti tra gli Usa e la Repubblica democratica popolare di Corea entrambi impegnati a raggiungere i rispettivi obiettivi. Paik Haksoon, presidente del Sejong Institute, think tank indipendente con base in Corea del Sud e tra i maggiori esperti dei rapporti inter-coreani, segnala un terzo elemento: “la rivalità tra due realtà coreane che vorrebbero ciascuna unificare l’intera Corea secondo le proprie condizioni ha sempre limitato fortemente la cooperazione che avrebbe aperto le porte all’unificazione”.

Le tensioni che anche nei giorni scorsi hanno accompagnato l’avvicinarsi dell’anniversario e una schiarita improvvisa a ridosso del 25 giugno hanno segnalato che nulla è perduto ma molto resta da fare, mentre il tempo scorre. Resta difficile decifrare la realtà del Nord, ma è significativa la situazione del Sud dove, sottolinea Paik Haksoon, “la guerra è ricordata con varia intensità secondo l’età e le esperienze. In altre parole, coloro che furono testimoni del conflitto hanno ancora una vive memoria delle atrocità, ma le nuove generazioni ne vengono a conoscenza dai libri di storia. I giovani vorrebbero vedere una situazione più distesa tra i due Paesi ma tendono a opporsi all’uso di troppe risorse per raggiungere questo obiettivo e sono più interessati al benessere offerto dalla patria sudcoreana”.

Stefano Vecchia

SUNITA NARAIN: CHE COSA INSEGNA LA PANDEMIA

L’India ha una lunga tradizione di impegno ecologista e nel tempo ha espresso personalità e indirizzi di intervento non solo originali ma anche efficaci, in un paese che ha vissuto gravi crisi ambientali ed è sottoposto costantemente ai rischi della natura e delle attività umane. Su questa linea, ma con un’apertura alle possibilità offerte dalla tecnologia, si pone Sunita Narain, direttrice del Centre for Science and Environment di Delhi e tra le maggiori sostenitrici dello sviluppo eco-compatibile. In questi giorni ha espresso sulla pubblicazione Down to Earth alcuni concetti di sicuro interesse generale.

“La pandemia da Covid-19 è il risultato del progressivo peggioramento del rapporto distopico con la natura. È anche il risultato di anni perduti che avremmo potuto investire nella salute pubblica e nella costruzione di una società più giusta dove i poveri non siano colpiti doppiamente, ma è lo stesso per i cambiamenti climatici e ogni altra questione che oggi ci sfida”.

“Troppo tempo è andato perso negando la realtà e non attivando una risposta complessiva e condivisa adeguata alla scala della crisi ambientale e ora il tempo è diventato una risorsa non solo indispensabile ma probabilmente insufficiente. Tutto questo, va detto con chiarezza, è soltanto l’inizio. Proprio mentre scrivo, i poveri del mondo – nel mondo ricco o emergente – sono coloro che soffrono maggiormente dato che già vivono al limite della sopravvivenza. Ci troviamo quindi nel peggiore dei tempi ma, come continuo a ripetere, la pandemia in corso e i cambiamenti climatici ci insegnano che noi siamo contemporaneamente nella posizione più forte e più debole per affrontarla”.

“Non possiamo negare o coprire il problema: le crisi che si moltiplicano renderanno il mondo più insicuro, spingeranno i governi ad essere più autoritari e intolleranti. Esiste anche un confine sottile tra quello che i governi considerano denunce non richieste e quelle che ritengono non necessarie in un crisi nazionale, con la sollecitazione all’autocensura per non indebolire l’impegno delle autorità! Questo però non possiamo farlo. Abbiamo bisogno di più informazione, non meno. Abbiamo anche bisogno di sapere che cosa sta succedendo sul campo in modo da potere meglio indirizzare le nostre azioni così da non fare errori o non ripeterli. Ricordiamo sempre che quella da Covid-19 è oggi una pandemia globale perché gli scienziati in Cina e nell’Oms non hanno avuto il coraggio di dire la verità. Renderci tutti accondiscendenti verso le decisioni del potere non farà scomparire il problema, inasprirà invece le molte crisi che non saremo in grado di affrontare”.

Stefano Vecchia

GIAPPONE: ANCHE IL MITO CONTRO IL CONTAGIO

Dovendosi confrontare con sfide eccezionali, il Giappone – secondo la sua tradizione shintoista arcipelago creato dagli dei – ricorre ancora al suo cuore ancestrale. Come l’apparizione del mitico pesce-gatto Namazu annuncerebbe eventi catastrofici, alla diffusione in corso del Covid-19 è connessa l’apparizione di un essere sovrannaturale, l’Amabie, una specie di tritone se lo riportiamo a immagini a noi più familiari, che emerge dal mare per annunciare o accompagnare un’epidemia.

Una serie di avvistamenti si sarebbe succeduta nei secoli, ma le prime immagini dell’essere metà uomo, metà pesce, con i lunghi capelli, il becco e un corpo ricoperto di squame arriverebbero da riproduzioni del XIX secolo di precedenti incisioni. L’unica relazione di un incontro ravvicinato con la creatura è quella di un funzionario governativo e sarebbe avvenuta presso le coste dell’isola di Kyushu. Datato dalla biblioteca dell’Università di Kyoto come risalente all’aprile 1846, il breve rapporto include una illustrazione e la descrizione dell’essere, accompagnate dalla sua profezia di sei anni di buoni raccolti come pure di una incombente minaccia di epidemia che la diffusione della sua immagine avrebbe contribuito a limitare.

La situazione attuale ha riportato alla mente la memoria dell’Amabie e si sono moltiplicate ovunque, su stampa, online o in forme artistiche e artigianali, persino in siti web ufficiali, le raffigurazioni fantasiose ma benevole di questo essere. Un altro esempio di come il mito e il mistero siano sempre prossimi alla realtà dei giapponesi, alimentando a volte timori ancestrali ma fornendo anche conforto e risposte davanti ad eventi terrificanti o inspiegabili.

Stefano Vecchia

MUMBAI: IL CONTAGIO E UNA LEZIONE DIMENTICATA

Un’epidemia di peste bubbonica colpì nel 1898 quella che oggi è Mumbai ma allora era Bombay, grande centro di traffici marittimi, splendida città in parte recuperata dal mare dagli inglesi colonizzatori. Allora le autorità coloniali intervennero sulla struttura urbana applicando strette regole sanitarie, distruggendo e ricostruendo interi quartieri di edilizia popolare con criteri d’avanguardia e aprendo ampi spazi al benefico flusso dell’aria marina. Una memoria e benefici presto perduti. Nell’India indipendente dal 1947, Bombay sarebbe diventata una delle città più inquinate dell’Asia, meta di una immigrazione che ha nel tempo occupato ogni spazio disponibile e reso problematico adeguare i servizi.

Oggi le zone più degradate di quello che è il cuore economico e finanziario dell’India accolgono almeno la metà dei 20 milioni di abitanti censiti, con un numero crescente di individui che vi arrivano espulsi da aree residenziali sempre più claustrofobiche e sempre più care anche per la crescente classe media. A Dharavi, forse un milione di residenti, per lungo tempo il più congestionato slum dell’Asia e dove la densità supera i 300mila abitanti per chilometro quadrato, i contagi da Covid-19 sono quasi 1.500, un centinaio i morti.

I quasi 23mila casi di coronavirus finora registrati a Mumbai equivalgono a un quinto del totale nazionale, ma i decessi (800) sono in percentuale superiore e si teme un’esplosione di contagi. La densità della popolazione è sicuramente una concausa della diffusione epidemica, insieme alla carenza di servizi igienici e di presidi medico-sanitari. Il divario tra i 186 dispensari registrati a Mumbai nell’ultimo censimento (2011), e gli 830 ritenuti necessari allora a soddisfare lo standard di uno ogni 15mila abitanti, non è mai stato colmato. Più che altrove nelle metropoli dell’India l’epidemia sta evidenziando i limiti di una situazione che l’urbanista Kedar Ghorpade, paragona a “una bomba sanitaria” innescata anche “dalla mancanza di comprensione degli ambienti umani”.

Stefano Vecchia

ASIA: LA LOTTA AL VIRUS LIMITA DIRITTI E DEMOCRAZIA

Repressione del dissenso e ulteriore riduzione delle libertà civili e dei diritti umani è quanto offrono diversi regimi asiatici nonostante la pandemia.

Questo vale per la Cambogia dove, cancellata l’opposizione, un parlamento piegato alla volontà del premier Hun Sen alla guida del paese da 35 anni gli ha conferito nell’occasione pieni poteri. Leggi emanate per l’occasione restringono la libertà di movimento e di riunione, accrescono i poteri di sorveglianza su mass media e Internet.

Di poco diversa la situazione nella confinante Thailandia, dove un regime che si è assicurato il controllo di istituzioni democratiche solo nella forma è erede del colpo di stato militare del maggio 2014. Minacce, pressioni e interventi della magistratura sono stati usati per liberarsi dell’opposizione, ma l’insoddisfazione popolare viene ora alimentata dalla povertà. Quasi la metà dei thailandesi ha chiesto di accedere al sussidio equivalente a 400 euro in un trimestre, negato a molti mentre risorse limitate per prevenzione e cura, spese militari aggiunte al disinteresse dell’oligarchia per la sorte della popolazione rischiano di fare esplodere il malcontento.

In Myanmar, la lotta al contagio che significativamente è stata accompagnata dalla censura imposta al personale medico e ai media, non ha fermato il braccio di ferro tra militari e governo, ancora perdente per quest’ultimo, riguardo le modifiche costituzionali in senso più rappresentativo. Nemmeno ha messo fine alle operazioni dell’esercito in aree sensibili abitate dalle minoranze Chin e Shan, come pure quelle contro i Rohingya nello stato Rakhine, ormai quasi svuotato da questa etnia.

Ancor più difficile ora nelle Filippine opporsi alle politiche populiste e alle tendenze illiberali del presidente Rodrigo Duterte che accompagnano il difficile impegno per contenere l’epidemia di Covid-19 in una nazione densamente popolata e che nella socialità ha una delle caratteristiche primarie. L’atteggiamento aggressivo verso l’opposizione alle politiche presidenziali si è intensificato con il sostegno delle forze di sicurezza e militari pienamente integrate nel sistema di patronato e nepotismo che sostiene Duterte. Sottoposto a un regime comunista, il Vietnam è stato esemplare per un intervento efficace contro il contagio e ha ampie possibilità di recupero economico tuttavia, come in Laos pure sottoposto alla dittatura del partito unico e dove la situazione resta incerta ma con una diffusione del contagio ufficialmente molto limitata, la repressione di diritti e dissidenza si è ulteriormente accentuata.

Stefano Vecchia

IL CIGNO VERDE INTERPELLA LA COREA DEL SUD

Meno noto e soprattutto meno riconosciuto del “cigno nero”, ovvero un evento connesso a una contingenza economica grave e imprevista, “cigno verde” si riferisce – secondo la definizione data lo scorso gennaio dalla Banca dei regolamenti internazionali – a una crisi finanziaria derivante da eventi ambientali al di fuori di ogni previsione.

“Il modificarsi del clima pone nuove sfide alle banche centrali, ai regolatori e ai supervisori finanziari – segnalava l’istituzione -. Integrare la analisi sui rischi connessi al clima all’interno dei controlli sulla stabilità finanziaria è particolarmente difficile a causa dell’incertezza estrema connessa con fenomeni fisici, sociali ed economici che sono in costante cambiamento e coinvolgono dinamiche complesse e reazioni a catena”. Fenomeni che, inoltre non possono essere gestiti dalle sole istituzioni bancarie o finanziarie, ma richiedono l’intervento coordinato dagli istituti di credito nazionali, dei governi, del settore privato, della società civile e della comunità internazionale.

Non un tema nuovo, quello dell’influsso del clima su un sistema economico globale già in evoluzione e sottoposto a forti sfide, ma che chiama ad azioni concrete e diffuse. In questa prospettiva la Banca di Corea ha deciso di fare la prime mosse, istituendo un ufficio studi specializzato sull’impatto del clima su macroeconomia e stabilità finanziaria. Lo scorso dicembre, il gruppo finanziario Shinhan è stato il primo in Corea del Sud a programmare iniziative per contrastare i cambiamenti climatici in adesione all’Accordo di Parigi. Dopo l’emissione a luglio 2019 di bond “verdi” ed eco-sostenibili per 500 milioni di dollari, l’azienda ha indicato di voler contribuire a tagliare le emissioni di gas effetto-serra del 20 per cento entro il 2030 attraverso investimenti in imprese eco-compatibili. Nel paese asiatico altri stanno seguendo con iniziative diverse, a partire dal gruppo finanziario KB.

Stefano Vecchia

INDIA: HIMALAYA E STATI TRIBALI REFRATTARI AL COVID

Intere regioni dell’India sarebbero state appena sfiorate dall’epidemia. In maggioranza sono quelle himalayane e della “tribal belt” che raccolgono la maggioranza del 40 per cento dei distretti del paese considerati “Covid-19-free” dal Ministero federale per la Salute e il Benessere familiare.

Oltre la metà dei distretti di Himachal Pradesh e Uttarakhand non hanno riportato casi di contagio e se sei dei 12 distretti del primo sembrano immuni dal coronavirus, un altro ha finora avuto un solo caso. Nel secondo, su 13 distretti, sette sono esenti dal contagio e due hanno segnalato un solo caso ciascuno. Negli stati e territori nord-orientali l’84 per cento dei distretti in Arunachal Pradesh e Assam sono senza casi segnalati, mentre Manipur, Meghalaya, Mizoram e Tripura sono quasi del tutto senza casi.

Anche le regioni con la maggiore presenza di popolazione tribale vedono solo focolai limitati. Complessivamente, il 70 per cento dei distretti in Odisha (Orissa), Chhattisgarh, Jharkhand e Bihar risultano “puliti” dal contagio.

Per gli esperti, un ruolo giocano forse caratteristiche ambientali e genetiche ma – alla luce della situazione altrove – soprattutto una popolazione più sparsa e la marginalità rispetto ai flussi migratori.

Con 35mila casi di contagio e un numero di decessi di poco superiore al migliaio, l’India resta un caso atipico nel pur variegato scenario della pandemia da Covid-19. Restano attivi diversi focolai e in alcune città, come Mumbai, la situazione è critica soprattutto in rapporto alle limitate possibilità di intervento, tuttavia una riapertura che tenga conte della diversa intensità dell’infezione è l’ipotesi ancora in campo a partire dal 3 maggio.

Stefano Vecchia

ASIA: IL CIBO TRA LE PRIORITÀ NELLA PANDEMIA

Sull’Asia che cerca di guardare oltre la pandemia in corso, pende un’emergenza alimentare. In aree di agricoltura più produttiva, la difficoltà di trasportare i prodotti va via via restringendo scambi e mercati; in quelle ad agricoltura di sussistenza, il consumo per le necessità quotidiane di piante e sementi destinati alla produzione apre già a situazioni di fame. Un po’ ovunque nelle aree più evolute, crescono le difficoltà a rifornire mercati e centri commerciali, nonostante il rallentamento delle vendite dovuto a contingentamento, distanziamento sociale e redditi ridotti. Quasi ovunque, si sono alzate barriere all’esportazione di prodotti essenziali.

Nonostante i buoni raccolti degli ultimi anni, un prodotto come il riso si trova da tempo ai massimi, con il prezzo di riferimento più elevato dal 2013 e con l’India, impegnata a garantire cibo essenziale a 800 milioni di abitanti con pochi o senza mezzi, che ha chiuso le porte all’esportazione. In questa situazione, il Vietnam è visto come ago della bilancia per decidere le sorti di un mercato globale dove viene però trattato solo il 6 per cento della produzione risicola mondiale, con forti pressioni sui prezzi.

“I Paesi a reddito basso e medio contribuiscono per un terzo al commercio mondiale di cibo, ricevendone contributi importanti in reddito e benessere”, ha ricordato il capo economista della Fao, Maximo Torero Cullen. “Le catene distributive devono essere tenute aperte, in particolare per i più vulnerabili”, come i 300 milioni di bambini che nel mondo dipendono per il nutrimento essenziale dai pasti nelle mense scolastiche ora chiuse.

Stefano Vecchia

CORONAVIRUS NEL SUD-EST ASIATICO 2

Cambogia. L’economia, già asfittica, sta soffrendo pesantemente il blocco imposto dal governo nonostante soli 122 casi accertati di contagio. Pressoché prosciugati gli arrivi dall’estero, cinesi soprattutto, e il turismo, la scarsità di materie prime comincia ad avere effetti pesanti sulla maggiore industria del paese, quella tessile, che produce per grandi brand internazionali. Cresce la protesta dei lavoratori del settore per l’obbligo della presenza in fabbrica pur mancando le protezioni essenziali.

Filippine. Deluso per la scarsa efficacia delle regole restrittive dei movimenti, il presidente Rodrigo Duterte pensa alla chiusura totale di Manila e minaccia la legge marziale su tutto l’arcipelago. Con 6.710 casi e 446 decessi finora la situazione rischia di precipitare, soprattutto tra la popolazione meno abbiente che le famiglie benestanti si sono impegnate e sostenere. Preoccupa anche la diffusione del Covid nelle carceri, con diversi morti e numerosi casi di contagio

Indonesia. Limitate e sovente disattese le misure preventive e gli appelli per fermare il tradizionale esodo del Ramadan nel più popoloso paesi islamico. Finora 7.418 e casi di contagio individuati e 635 i decessi. Polemiche ma soprattutto disagi per la burocrazia che ostacolo la distribuzione del reddito di pre-impiego (equivalente a circa 190 euro in quattro mesi) ai più poveri e ai disoccupati.

Malaysia. Nel paese che ha registrato 5.532 contagi e 93 decessi, anche le minoranze etniche si trovano in serie difficoltà per chiusure e mancanze di aiuti in questo tempo di pandemia. L’allarme delle autorità locali e delle organizzazioni non governative suggerisce il rischio della fame in mancanza di misure urgenti.

Myanmar. Ufficialmente 121 i contagiati e solo cinque i morti in una situazione di chiusura rigida decretata dalle autorità, ma preoccupa la situazione di un paese con strutture sanitarie limitate e in diverse regioni pressoché inesistenti. La situazione di conflitto in alcune aree, stati Rakhine (Arakan) e Chin soprattutto, rende difficile un controllo del contagio e eventuali interventi, ancor più per la stretta censura che riguarda zone coinvolte nelle attività militari.

Singapore. Superati i 10mila casi e con 11 decessi, il contagio ha ripreso slancio nella città-stato nonostante le misure di distanziamento sociale e la limitazione a iniziative produttive e commerciali. Preoccupa il crescente numero di quelli registrati tra stranieri in una realtà che ha un elevato numero di immigrati per lavoro. Ieri comunicati provvedimenti più severi, estesi fino al 1° giugno.

Thailandia: Già evidenti le conseguenze economiche dell’epidemia da Covid-19. Confermato l’elargizione di 5.000 baht (140 euro) per un solo mese anziché tre come annunciato in precedenza per ciascuno dei milioni di lavoratori del settore informale ormai inattivi. Mancano risorse , nonostante il taglio del 10 per cento dei bilanci ministeriali e anche per questo, il premier, l’ex generale Prayut Chan-ocha, ha chiesto il sostegno dei 20 super-ricchi del paese. Le forze armate chiamate a ridimensionare spese e piani di acquisto.

Vietnam. Chiusa già a gennaio la frontiera con la Cina, attuando uno stretto controllo sociale e una quarantena selettiva, fermando le scuole e indirizzando gli strumenti di protezione ove indispensabili, il paese è riuscito a superare la fase acuta dell’epidemia e ora dichiara 216 guariti su 268 casi di contagio. Resta tuttavia alta l’attenzione, con forti limitazioni agli arrivi dall’estero e il dispiegamento di medici, infermieri, neolaureati e studenti di medicina nelle aree più a rischio.

Stefano Vecchia

CORONAVIRUS NEL SUD-EST ASIATICO 1

In una regione che costituisce un importante snodo dei trasporti, dei commerci, del turismo e delle migrazioni e di cui fanno parte i 10 paesi dell’Asean, Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico, le problematiche sono in parte comuni. In quest’area abitata da 700 milioni di persone e caratterizzata da varietà etnica, linguistica culturale, religiosa e di sistemi politici crescono i casi di contagio da Covid-19, nonostante la difficoltà a delineare la portata della pandemia per la scarsità dei controlli data la generale limitatezza delle risorse sanitarie, quasi ovunque nettamente inadeguate.

Rispetto all’Europa o agli Stati Uniti, la popolazione locale ha il vantaggio dell’età media molto bassa: 30,2 anni, che scendono addirittura a 25,7 per le Filippine. Una condizione che limita i casi più gravi e facilita il recupero in caso di contagio,.

Nazioni-arcipelago come Indonesia e Filippine sono quelle maggiormente a rischio, anche per le difficoltà di intervento, ma solo poche migliaia di test forniti da Australia, Giappone, Corea del Sud sono finora stati eseguiti sui 76 milioni di abitanti in Cambogia, Laos e Myanmar, sottoposti a una quarantena che influisce pesantemente su buona parte della popolazione meno favorita.

Problema di rilievo, la sorte del gran numero di migranti economici rimasti bloccati fuori dai confini nazionali, nell’area o al suo esterno.

Sul piano delle emergenze umanitarie, preoccupa la sorte dei Rohingya, minoranza musulmana espulsa dal Myanmar dalle campagne militari degli ultimi anni che, con l’avvio della stagione più favorevole per prendere il mare, sono già deceduti a decine tentando la traversata dalle coste birmane o del Bangladesh diretti, soprattutto, verso la musulmana Malaysia. Difficile trovare approdi lungo la rotta, ancor più in piena allerta epidemica, ma la pressione dei trafficanti e le pesanti condizioni in cui i Rohingya si trovano nei centri di raccolta, incentivano la partenza.

Stefano Vecchia

NON DIMENTICHIAMO IQBAL MASIH

Oggi si celebra nel mondo la Giornata mondiale contro la schiavitù minorile, una ricorrenza non casuale ma che ricorda Iqbal Masih, esempio della lotta contro questo fenomeno nel suo paese, il Pakistan, e per questo ucciso, dodicenne, 25 anni fa dopo una breve stagione di impegno civile che in due anni, dalla sua liberazione dalla schiavitù per debito in una fabbrica di tappeti, lo aveva portato alla notorietà internazionale.

Appartenente a una minoranza, quella cristiana, a sua volta sottoposta a discriminazione in una nazione in stragrande maggioranza musulmana ma dove non solo le minoranze ma anche una parte consistente della popolazione di fede islamica soffrono povertà, emarginazione e mancanza di possibilità, Iqbal resta oggi riferimento per molte organizzazioni (a partire dal Fronte per la liberazione dal lavoro forzato di cui era diventato testimonial) impegnate a contrastare una “piaga” ancora diffusa nel paese ma anche altrove

L’Unicef calcola che dei 46 milioni di esseri umani costretti a una delle varie forme di schiavitù sul pianeta, 25 milioni lo siano per debito e di questi il 51 per cento siano donne e bambini. Nel solo Pakistan, l’Organizzazione internazionale del lavoro stima in quattro milioni le persone, minori al 70 per cento di alcune aree e occupazioni, sottoposte a un sistema che lega individui ma spesso intere famiglie a una situazione di subordinazione, sfruttamento e pericolo da cui è estremamente difficile uscire per le condizioni imposte da proprietari terrieri e imprenditori tessili, gestori di miniere e datori di lavoro domestico.

Un sistema che sopravvive perché l’imposizione della schiavitù, se accolta per avere contratto un debito, non è perseguibile. Lo sono tuttavia i crimini che da essa derivano – minacce, abusi, violenza e, a volte, omicidio – non sempre facili da provare e perseguire in una realtà che risente, più ancora che delle carenze legislative, della stretta connessione tra politica, latifondo e imprenditoria senza scrupoli.

Stefano Vecchia

GIAPPONE: QUASI AZZERATO IL TURISMO RECORD

Pesantissimo il calo dei visitatori in Giappone. Il -93 per cento di marzo rispetto a 12 mesi prima segna il dato peggiore dal 1964 e numericamente indica che solo 193.700 stranieri sono entrati nel Paese del Sol levante, in calo per il sesto mese consecutivo. Con scali portuali e aeroportuali ancora parzialmente aperti, anche se con controlli rigidi e quarantena applicata alla maggior parte degli arrivi, il bando all’ingresso nell’arcipelago riguarda ora i cittadini di 73 paesi e regioni, inclusi gli Stati Uniti da cui il mese scorso era arrivato il maggior numero di visitatori, 23mila.

Quasi totale lo stop degli arrivi da Repubblica popolare cinese, Taiwan e Corea del Sud che avevano alimentato negli ultimi anni un’espansione dell’industria turistica cresciuta – per quanto riguarda la platea internazionale – del 263 per cento tra il 2010 e il 2018 arrivando a 31,2 milioni di visitatori con l’aspettativa ormai fallita di arrivare in quest’anno olimpico a 40 milioni.

In vista di ospitare più di 15mila atleti per le Olimpiadi e Paralimpiadi 2020 ora rinviate al 2021, le terze più costose della storia con un bilancio di 25 miliardi di dollari, le autorità avevano promosso il turismo con incentivi e con un’apertura dei visti per molti paesi. L’arcipelago era stato così invaso pacificamente fino allo scorso febbraio da milioni di visitatori che avevano avuto modo di conoscere una realtà ben diversa da quella del 1964, quando il Giappone, per la prima volta sede olimpica, aveva appena iniziato a porsi in concorrenza con i paesi più avanzati.

Stefano Vecchia

GIAPPONE: RICORDARE FUKUSHIMA IN TEMPO DI PANDEMIA

A oltre nove anni dalla doppia catastrofe naturale terremoto-tsunami che attivò la peggiore crisi nucleare in Giappone e la seconda come gravità al mondo dopo quella di Chernobyl, ricordare Fukushima può sembrare retorico, oppure consolatorio. Nessun rapporto, nessuna parallelo possibile, ma allo stesso tempo le due crisi finiscono per intrecciarsi.

Il Giappone ha pagato pesantemente in termini di vittime (18mila) per l’immane disastro dell’11 marzo 2011, e in termini economici (300 miliardi di dollari) sia per la ricostruzione sia, ancora, per il sostanziale blocco del suo sistema energetico nucleare dopo l’avaria dei reattori della centrale numero 1 di Fukushima.

Da anni il paese aveva posto nelle Olimpiadi della prossima estate, ora spostate al 2021, le speranza di vedere esorcizzata quella catena di eventi e di lasciarsela alle spalle. Avviando così una nuova fase, libera dall’incubo nucleare nato con la devastante esperienza dei bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki il 6 e il 9 agosto 1945 e rilanciata dalla fusione delle barre di combustibile atomico nei reattori di Fukushima dove il contenimento delle radiazioni prosegue con costi e rischi altrettanto elevati.

Invece, l’aggressione del coronavirus ha modificato tutto questo, ha stoppato una crescita che sembrava inarrestabile del turismo che in un quinquennio si era incrementato fino a ipotizzare i 40 milioni di visitatori per l’anno in corso, ha aggiunto a una paura profonda, senza pari nell’era moderna ma ormai nota, con una più atavica perché invisibile e straniera.

Dal 7 aprile il Giappone ha avviato la fase del contrasto nazionale alla diffusione del Covid-19 e con ogni probabilità nei prossimi giorni e settimane si dovrà muovere sul percorso ormai noto di distanziamento sociale e ridimensionamento produttivo. Saprà probabilmente farlo con impegno e in modo ordinato, con lo spirito di sacrificio e l’efficienza che sono tratti distintivi dei giapponesi. Le certezze con cui il Giappone affronterà l’accumularsi delle sue crisi potranno segnare il confine tra una crisi da superare, per quanto difficile o dolorosa, o un nuovo incubo da integrare nella coscienza collettiva.

Stefano Vecchia

COREA DEL NORD UFFICIALMENTE IMMUNE DA CONTAGIO

Nella pandemia in corso con crescenti conseguenze anche sul continente asiatico, due paesi restano ufficialmente immuni dall’assalto del coronavirus: il Turkmenistan e la Corea del Nord, entrambi controllati da regimi autoritari e isolati da una censura impenetrabile.

La Corea del Nord non ha ammesso finora alcun caso di contagio tra i suoi 26 milioni di abitanti anche se già a gennaio ha chiuso il confine con la Cina e a marzo il suo leader Kim Jong-un si era fatto vedere con la mascherina protettiva durante test balistici. Ancora a marzo erano stati approntate strutture di cura e di quarantena, mentre veniva negato ogni arrivo di materiale sanitario specifico e forse di medici dall’alleato cinese.

Le voci raccolte in Corea del Sud, a sua volta colpita pesantemente dal contagio, con 10.384 casi registrati e 200 decessi, parlano – al di là di dati non verificabili su un’epidemia in corso – del rischio di una diffusione incontrollata se dovessero accendersi focolai in un paese con pochissime risorse oltre a quelle destinate alla leadership e alle forze armate, sicuramente impreparato ad affrontare un’emergenza sanitaria come in passato quelle alimentari.

La situazione accentua l’attesa per la riunione del parlamento annunciata dall’agenzia di stampa ufficiale Kcna per il 10 aprile. Per gli analisti della realtà nordcoreana sarebbe la riprova della volontà del regime di mostrare sicurezza e unità radunando 700 esponenti della sua leadership quando altrove nel mondo molti paesi stanno vivendo il picco del contagio e applicano un severo distanziamento sociale.

Stefano Vecchia

ASIA MERIDIONALE DIVISA DAVANTI AL VIRUS

L’Asia meridionale, che ospita un quinto della popolazione mondiale, affronta le conseguenze del contagio da Covid-19 senza un sostanziale coordinamento, in prospettiva aggravando le conseguenze anche economiche dell’epidemia.

Prima fra tutti nella regione a provare a individuare una via d’uscita dall’emergenza successivamente alle tre settimane di blocco dei movimenti e delle comunicazioni iniziato il 24 marzo, è l’India. Mentre si moltiplicano i contagi (4.067 quelli comunicati) e i decessi (109) ma non con l’incidenza temuta, il governo di New Delhi parla di una “ripresa a più fasi”. Probabilmente differenziando le iniziative per aree in base geografiche alla situazione del 14 aprile, a partire dalla ripresa dei trasporti pubblici nei centri principali.

Complessivamente, nella settimana tra il 30 marzo e il 5 aprile il numero dei contagi in Asia meridionale (India, Pakistan, Afghanistan, Nepal, Bhutan, Bangladesh, Sri Lanka, Maldive) è raddoppiato e pochi ignorano la difficoltà a stilare una quadro preciso delle conseguenze dell’epidemia, da un lato, e dall’altro a garantire l’essenziale distanziamento sociale. Ad esempio, risulta difficile convincere i musulmani ortodossi a non frequentare le moschee in paesi islamici come Afghanistan, Pakistan e Bangladesh, mentre gruppi religiosi radicali, sia in India come in Pakistan, sono indicati come focolai di contagio.

Questi i dati ufficiali forniti ad oggi al di fuori dell’India: Pakistan, 3.277 contagiati, 50 deceduti; Afghanistan, 367 casi e 7 decessi; Sri Lanka, 176 contagiati e 5 morti; Bangladesh, 133 infettati e 13 deceduti; Maldive, Nepal e Bhutan hanno registrato finora rispettivamente 19, 9 e 5 casi di contagio ma nessun decesso.

Stefano Vecchia

COREA DEL SUD: CONTAGIATA PURE LA CULTURA

La realtà culturale sudcoreana, oltre che originale per le sue caratteristiche locali e anche per gli interessanti connubi con le esperienze internazionali, in grado di porsi in aperta competizione attraverso le varie espressioni della sua cultura popolare (come il K-pop) con le tendenze globali più seguite, è anche assai varia. Inevitabilmente, l’epidemia in corso di Covid-19 che ha provocato ad oggi nel paese estremo-orientale 9.976 casi di contagio e 169 decessi, pesa sensibilmente anche sull’ambito culturale e ancor più è previsto che lo farà nei prossimi mesi.

Sono molte le manifestazioni artistiche di vario genere – concerti, performance teatrali, mostre – cancellate o in via di cancellazione, con una forte ricaduta finanziaria e di immagine. La Federazione delle Organizzazioni artistiche e culturali della Corea, iniziativa privata che ha chiamato il governo a un intervento urgente, ha calcolato in 2.511 gli eventi cancellati o sospesi tra gennaio e aprile, con una perdita finanziaria stimata in 52,3 miliardi di won (circa 39 milioni di euro).

Preoccupanti le conseguenze sull’attività e sulle finanze degli artisti. L’89 per cento di quelli coinvolti nell’indagine alla base di un recente rapporto della Federazione, ha avuto o avrà un forte calo di reddito.

Stefano Vecchia

INDONESIA: E’ EMERGENZA, STOP A INGRESSI

Drastica ma non inattesa dopo le restrizioni dei trasporti aerei e marittimi annunciati fin dalla prima dichiarazione di allerta per due settimane il 14 marzo, rinnovata poi fino all’11 aprile, oggi è arrivata la decisione del presidente indonesiano Joko Widodo di dichiarazione lo “stato di emergenza sanitaria pubblica” e isolare di fatto il paese. La misura, come altre “mirate a impedire la diffusione del nuovo coronavirus” fa parte di provvedimenti presto in vigore a seguito della . A oggi sono 1.528 nell’immenso arcipelago indonesiano i positivi al Covid-19, in maggioranza concentrati nell’area della capitale Giakarta, con 136 decessi.

“Per affrontare l’impatto dell’epidemia, abbiamo scelto l’opzione di attuare restrizioni sociali su ampia scala”, ha detto Widodo presentando il provvedimento e, ha aggiunto, “dobbiamo imparare dall’esperienza di altri, ma non possiamo solo imitarli perché ciascun paese ha caratteristiche proprie”.

Poco prima della comunicazione presidenziale, la ministra degli Esteri, Retno Marsudi, aveva segnalato la decisione di proibire in tempi brevi l’ingresso e il transito di cittadini stranieri di qualsiasi provenienza, se non per residenti di lungo periodo nel paese, diplomatici o individui in possesso di particolari permessi. Una mossa che altri stati asiatici hanno già attuato, ma che contrasta spesso con le necessità di rimpatrio di consistenti comunità di emigrati che cercano in ogni modo di tornare ai luoghi d’origine d’origine. Sono loro, in buona parte, a essere indicati come responsabili di nuovi focolai di contagio in Cina, Corea del Sud e altrove nel continente.

Stefano Vecchia

INDIA CHIUSA PER COVID, POVERI A RISCHIO

L’India si avvicina ai 900 casi di contagio e ad oggi sono 19 le vittime accertate. Nonostante l’assedio ai supermercati nelle città e la pressione di milioni di migranti interni che cercano di tornare alle località d’origine, sembra reggere il blocco totale del paese, garantito da ingenti forze di polizia e militari. Il governo ha affiancato a questa misura drastica in vigore da mercoledì scorso un piano di sostegno alimentare e finanziario a favore di 800 milioni di abitanti, ma elevati sono i rischi che le difficoltà nella distribuzione di generi di prima necessità e la mancanza di fonti certe di reddito o dei documenti necessari per accedere agli aiuti possano pesare soprattutto sull’immenso settore informale (450 milioni di addetti stimati) e su due milioni di senza fissa dimora.

Le disuguaglianze economiche e le diverse possibilità si ripropongono nel sistema sanitario, con istituzioni di eccellenza destinate ai più abbienti mentre zone depresse del paese sono praticamente prive di servizi medico-assistenziali. Nelle congestionate aree urbane, già normalmente per la maggioranza dei poveri risulta impossibile accedere a cure adeguate.

Il governo copre, con l’1 per cento del prodotto interno lordo, il 27 per cento delle spese sanitarie (contro il 56 per cento della Cina). Dal 2018 è garantito l’accesso alla sanità di base per 500 milioni di indiani con un piano nazionale che coinvolge il settore pubblico e privato. Tuttavia, in vista dell’acuirsi del contagio, il governo ha chiesto alle strutture private di indirizzare le risorse disponibili al contenimento della pandemia, limitando quindi le possibilità di cura dei meno abbienti alla sola sanità pubblica. Le autorità hanno anche sollecitato a eseguire il test per individuare l’eventuale positività al coronavirus nelle strutture private al costo di 4.500 rupie (52 euro), ben oltre la possibilità di molti.

Stefano Vecchia

IL MYANMAR “SCOPRE” IL CONTAGIO

Il Myanmar (già Birmania) scopre il coronavirus, con tre casi registrati dal 23 marzo dopo che varie fonti avevano indicato l’individuazione di almeno un cittadino cinese positivo già a fine gennaio. Da allora, però i segnali del contagio erano stati limitati alla chiusura della maggior parte dei posti di frontiera terrestri e a un filtro sempre più stretto ai voli in arrivo. Fino all’annuncio, la settimana scorsa della quarantena obbligatoria per passeggeri provenienti da 14 paesi, misura incrementata il 25 marzo con la decisione di imporre 14 giorni di isolamento per tutti – birmani e stranieri – autorizzati a sbarcare nei soli aeroporti di Yangon, Mandalay e la capitale Naypyitaw.

Il paese è però tutt’altro che sigillato e questo vale per le decine di migliaia di birmani emigrati per lavoro all’estero, a partire da quelli nella confinante Thailandia che cercano di rientrare prima che Bangkok dichiari il blocco totale, ma anche i cinesi, a cui si deve il maggior flusso turistico nel paese sommato a un gran numero di imprenditori, commercianti, consulenti e specialisti impegnati nella costruzione di infrastrutture.

Da sempre il rapporto tra il Myanmar e il vicino cinese è intenso e, sino alla fine del regime nel 2011, sostenuto dall’apparato militare che ancora oggi, nonostante il consolidamento di istituzioni democratiche con un ruolo essenziale garantito alla Premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi e alla sua Lega nazionale per la democrazia, conservano ministeri chiave, come quelli delle Risorse naturali e delle Frontiere, che garantiscono forti benefici economici e il controllo di aree strategiche.

In questo panorama si situa la difficile situazione del Nord-Ovest birmano. Ieri l’organizzazione non governativa Fortify Rights (FR) ha chiesto al governo la fine immediata di ogni restrizione all’uso di Internet negli stati Rakhine e Chin, svuotato il primo dell’etnia musulmana Rohingya da operazioni militari che la comunità internazionale ha denunciato come “genocidio” e il secondo che è campo di battaglia tra esercito e milizie etniche. Militarizzazione e censura impedirebbero, secondo FR, un’efficace azione preventiva e di cura in caso di epidemia conclamata.

Stefano Vecchia

“ITALIAN CONNECTION” PER IL SUPER-VIRUS

Ci risiamo! Ci aveva provato dieci giorni fa il ministro della Sanità, Anutin Charnvirakul, a cercare tra gli stranieri gli untori responsabili dell’epidemia di Covid-19 in Thailandia, trovandosi subissato di proteste e insulti e costretto per questo a chiudere il sito Facebook dove aveva postato le sue accuse insensate.

Ci riprova oggi un “eminente medico” citato dal quotidiano Thai Rath che ha incolpato gli italiani, e in particolare un fantomatico “super-diffusore” che avrebbe acceso la miccia del contagio nell’ex Paese del Sorriso che l’atteggiamento benevolo e la leggerezza del vivere ha perso da tempo sostituita da repressione, divaricazione sociale e xenofobia.

Secondo il dottor Manoon Leechawengwong, “esperto di malattie infettive del Vichaiyut Hospital di Bangkok”, il paese, che prima di marzo era stato colpito in modo molto limitato da una versione debole del virus (“di provenienza asiatica”, sottolinea), ha visto nelle ultime settimane la diffusione della forma del virus proveniente dall’Italia assai più contagiosa. Responsabile un individuo contagiato da un parente arrivato dal nostro paese (se un viaggiatore italiano o un thailandese al rientro non è specificato). Colpa sua se 50 individui sono stati contagiati durante una competizione di boxe thailandese il 6 marzo e questi a loro volta si sono incaricati (involontariamente si presume) di diffondere il morbo in modo esponenziale (721 i casi di contagio e un decesso finora).

Sulla sua pagina Facebook, il medico ha segnalato con preoccupazione le prospettive dell’epidemia in Thailandia se non si interverrà in modo tempestivo. Ovviamente sono state anche per lui numerose le critiche e le manifestazioni di scetticismo per una tesi che ancora una volta, più che certezze scientifiche o azioni in linea con l’emergenza, mostra la xenofobia e la mancanza di senso di responsabilità altrettanto diffuse.

Dopo settimane in cui i dati ufficiali erano rimasti fissi su 30-40 casi “lievi” di contagio, da qualche giorno si verifica una crescita esponenziale di casi, non diversa però da quella di altri paesi in cui ci si trova di fronte a una sottovalutazione ufficiale del problema e a direttive non solo confuse ma sostanzialmente ignorate. Tant’è vero che se Bangkok e le province limitrofe sono state messe in sicurezza chiudendo ritrovi, ristoranti, grandi magazzini e scuole fino al 12 aprile, nessuno ha pensato di impedire l’esodo della popolazione che diffonderà ovunque il contagio, finora concentrato nella capitale.

Il dottor Leechawengwong, con la sua acredine verso gli stranieri, è espressione di un paese guidato dai militari e dagli interessi elitari che vede approfondirsi le sue ombre e che va perdendo i tradizionali alleati, investitori e visitatori per finire sempre più nell’abbraccio cinese.

Stefano Vecchia

TOKYO CREDE ANCORA AI GIOCHI

Lo sbarco, ieri, della fiaccola olimpica a Tokyo è stato un ritorno atteso nel Paese del Sol Levante dopo 56 anni. Un evento altamente simbolico arrivato però in un tempo sfavorevole allo sport e alla socializzazione.

A febbraio il turismo in Giappone ha registrato il 58,3 per cento in meno rispetto a un anno prima, segnale che l’obiettivo dei 40 milioni di arrivi nell’anno olimpico è ormai lontano e che il settore, che negli ultimi cinque anni aveva quintuplicato le presenze straniere con un boom eccezionale è avviato a una crisi significativa come tutto l’indotto.

Ovviamente è anzitutto il risultato dell’epidemia di Covid-19 in corso, anche se la frenata dell’economia cinese e le ripercussioni regionali e globali delle tensioni tra Pechino e Washington avevano iniziato da mesi a limitare un flusso che sembrava inarrestabile.

Pochi giorni fa l’ex premier Taro Aso, parlamentare e influente esponente del Partito liberal-democratico aveva parlato di Olimpiadi ormai “segnate”, ma il governo di Tokyo ha oggi confermato la volontà di proseguire nel percorso olimpico. Non senza resistenze crescenti, quelle più esplicite di Stati Uniti, Regno Unito, Norvegia e Brasile che hanno chiesto il rinvio, ma le richieste si moltiplicano anche da parte di paesi-membri del Comitato olimpico internazionale (Cio) e di atleti.

Il presidente del Cio, Thomas Bach, ha parlato di una decisione “prematura” se si cancellassero o rinviassero ora le gare ma ha ammesso che il comitato sta “considerando scenari diversi” davanti alla pandemia. Ogni decisione sarà comunque presa in accordo con l’Organizzazione mondiale della Sanità. Insomma, porte ancora aperte per i Giochi olimpici di Tokyo dal 24 luglio al 9 agosto e quelli paralimpici dal 25 agosto al 6 settembre, tuttavia l’ultimatum inviato dal Comitato olimpico francese a quello giapponese con l’indicazione del 31 maggio per una decisione definitiva sullo svolgimento sembra di giorno in giorno meno arbitrario. In gioco non è solo l’immagine del paese, ma anche tra 0,7 e 1,5 per cento del Prodotto interno lordo per l’anno in corso.

Stefano Vecchia

Come l’Asia affronta la pandemia

Focolaio primario della pandemia, l’Asia corre ai ripari con provvedimenti di urgenza isolando aree abitate oppure potenziando i sistemi sanitari e la coscientizzazione delle popolazioni. Tuttavia la preoccupazione è elevata, soprattutto per le realtà più afflitte da povertà, repressione politica o incompetenza. Diffuso è il timore che saranno le classi medie già falcidiate dalla crisi economica e i più poveri e indifesi a subire le conseguenze maggiori della pandemia.

I pochi casi ufficiali di contagio, da poche decine a qualche centinaio, con il numero massimo (900) in Malaysia accertati nei dieci paesi membri dell’Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico (Asean) che conta 630 milioni di abitanti, sembrano più frutto di sottovalutazione che di reale diffusione del Covid-19. Ovunque, ampie differenze di reddito e possibilità tra una esigua minoranza e la maggior parte degli abitanti, qui come altrove in Asia, non potranno che amplificare le conseguenze per i gruppi meno favoriti.

“Le problematiche abitative sono ora sulla linea del fronte contro la diffusione del coronavirus, avere una abitazione mai come ora può fare la differenza per la vita o la morte”. Con queste parole Leilani Farha, Inviato speciale delle Nazioni Unite per il diritto all’abitazione, ha sollecitato tutti i governi a prendere misure efficaci per evitare che altri vadano ad aggiungersi al gran numero di individui che vivono in condizioni abitative precarie (1,8 miliardi nel mondo) che li espongono ora maggiormente al contagio. A sua volta, un rapporto della United Nations Economic and Social Commission for Asia and the Pacific segnala con chiarezza i rischi di recessione in aree vulnerabili, al punto che la pandemia potrebbe più che raddoppiare il numero degli asiatici in povertà estrema (sotto 1,9 dollari al giorno) prima previsto in 56 milioni entro il 2030.

Si temono anche i rischi di involuzione democratica e la restrizione di diritti e libertà già ridotte o sotto pressione in diversi paesi. Non a caso, in una Hong Kong che registra un record di contagi di ritorno, in buona parte attribuibile al rientro di cittadini e stranieri dall’estero, il prolungato braccio di ferro tra democratici e governo locale (supportato da Pechino) è andato sottotraccia ma l’accademico e attivista Benni Tai parla dello stato di diritto attuale come di “un morto che cammina”. Altrove, come in Thailandia, Cambogia, Corea del Nord – la stessa Repubblica popolare cinese – a rischio sono anche regimi repressivi messi alla prova da un’emergenza che si associa alla recessione economica già in corso. Infine, crescono i timori delle minoranze religiose in realtà, come la Malaysia, il Myanmar o l’India, dove la crisi potrebbe incentivare xenofobia e suprematismo a base religiosa.

Stefano Vecchia

Asia: Emergenza coronavirus 19.03

AUSTRALIA e NUOVA ZELANDA sono gli ultimi tra i molti paesi che hanno chiuso l’ingresso ai non residenti.

GIAPPONE e THAILANDIA, tra gli altri, hanno invece imposto la quarantena all’arrivo.

GIAPPONE. Si alza di livello e ormai ha raggiunto i vertici politici, sollecitati anche dall’estero, il dibattito sul rinvio o la sospensione delle Olimpiadi e Parolimpiadi di luglio-agosto.

FILIPPINE. Prosegue la messa in sostanziale quarantena di metà della popolazione. Il governo giapponese ha deciso l’invio di 100mila kit per testare la presenza del coronavirus.

CINA e HONG KONG affrontano un crescente numero di casi importati dall’estero, in maggioranza cinesi di ritorno, 34 per la prima. Si parla di “seconda ondata” del contagio, peraltro prevista in casi di pandemia.

COREA DEL SUD. Crescono i mini-focolai (ad esempio in case di riposo o comunità religiose) con un rialzo nel numero dei contagi quotidiani dopo alcuni giorni di stasi.

GLOBALMENTE salgono a 17mila miliardi le perdite borsistiche e, con le nuove iniziative di quantitative easing della Banca centrale europea, a 1.900 miliardi i provvedimenti anti-crisi economica attivati finora nel mondo.

INDONESIA. Alle prese con la richiesta frenetica di provvedimenti di contenimento del contagio e di test, ma con 270 milioni di abitanti e strutture sanitarie già inadeguate, è ora uno dei paesi a maggior rischio e, con 19 decessi, quello finora più interessato da casi letali nell’Asia sudorientale.

MALAYSIA. La federazione si conferma il paese con finora il più alto numero di contagi del Sud-Est asiatico, 900.

VIETNAM. Avviato un piano di contenimento della mobilità, a partire dalla capitale Hanoi.

Stefano Vecchia

Asia: Emergenza coronavirus 18.03

GIAPPONE. Il premier Shinzo Abe tentenna sull’emergenza, che darebbe un duro colpo a un’economia in affanno. Olimpiadi in sospeso, con il Comitato olimpico francese che ha dato al paese un ultimatum a fine maggio per la decisione definitiva.

COREA DEL SUD. L’arcidiocesi di Seul, nella cui area vanno emergendo cluster di contagio ha deciso la chiusura delle chiese.

MYANMAR. Il governo ha suggerito alla controparte thailandese di disincentivare il rientro di due milioni di lavoratori durante le celebrazioni del Capodanno che iniziano, come nel paese confinante e in altri della regione, il 13 aprile. La Thailandia ha già posticipato ogni evento a data da definire.

INDIA. La chiusura preventiva del paese verso l’estero sembra funzionare, ma è ovviamente difficile valutare la situazione in una realtà tanto vasta e complessa come quella indiana. Davanti all’emergenza, finiscono in sordina altri eventi nazionali, incluse le proteste contro la nuova legge sulla cittadinanza attive da dicembre e le loro conseguenze di ordine pubblico e politiche.

Stefano Vecchia

MYANMAR: SUL REGIME PESANO CONFLITTO E ISOLAMENTO

La situazione del Myanmar resta al centro di forte preoccupazione. Nessuna iniziativa diplomatica di rilievo è riuscita a smuovere la giunta dall’impegno a portare a termine il percorso elettorale una “vera democrazia” sotto controllo militare. Il regime, birmano cosciente dell’ostilità quasi assoluta che lo circonda non chiude però tutte le porte e in questo senso andrebbe l’accoglienza della Corte costituzionale del ricorso presentato dai legali della Premio Nobel per la Pace, Aung San Suu Kyi, riguardo la revisione di alcune delle sentenze già emesse per complessivi 33 anni di carcere. Continua anche a lasciare aperti selettivamente spiragli di dialogo con la comunità internazionale, pochi giorni fa accogliendo – as esempio – l’ex segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon. Una visita non preannunciata, senza alcun incarico ufficiale, che ha visto l’incontro con il capo del regime per uno scambio di opinioni definite dal portavoce della giunta “positive” e “aperte”. Su un altro fronte a due anni dalla firma del “Consenso in cinque punti” tra giunta birmana e gli altri nove governi dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico (Asean) di cui il Myanmar fa parte, l’organizzazione continua a verificare la sua incapacità di spingere il regime al dialogo. Non a caso il prossimo summit dell’organizzazione, a maggio, è atteso ancheì per vedere qualche risultato dal dibattito in corso in diversi Stati membri sull’opportunità di riconoscere un ruolo al Governo di unità nazionale (Gun) in clandestinità, formato in maggioranza da esponenti della Lega nazionale per la democrazia di Aung San Suu Kyi. Sul fronte della crisi, intanto, arrivano conferme che in diverse aree sotto il controllo delle milizie etniche, sono queste – in molti casi rodate da decenni di conflitto contro la dittatura – a preparare gli uomini delle Forze di difesa popolare, in maggioranza di etnia birmana e coordinate dal Gun. Un segnale che il comune impegno sta creando una convergenza inedita tra le componenti etniche, sociali e politiche di un paese-mosaico.

STEFANO VECCHIA