MYANMAR: SUL REGIME PESANO CONFLITTO E ISOLAMENTO

La situazione del Myanmar resta al centro di forte preoccupazione. Nessuna iniziativa diplomatica di rilievo è riuscita a smuovere la giunta dall’impegno a portare a termine il percorso elettorale una “vera democrazia” sotto controllo militare. Il regime, birmano cosciente dell’ostilità quasi assoluta che lo circonda non chiude però tutte le porte e in questo senso andrebbe l’accoglienza della Corte costituzionale del ricorso presentato dai legali della Premio Nobel per la Pace, Aung San Suu Kyi, riguardo la revisione di alcune delle sentenze già emesse per complessivi 33 anni di carcere. Continua anche a lasciare aperti selettivamente spiragli di dialogo con la comunità internazionale, pochi giorni fa accogliendo – as esempio – l’ex segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon. Una visita non preannunciata, senza alcun incarico ufficiale, che ha visto l’incontro con il capo del regime per uno scambio di opinioni definite dal portavoce della giunta “positive” e “aperte”. Su un altro fronte a due anni dalla firma del “Consenso in cinque punti” tra giunta birmana e gli altri nove governi dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico (Asean) di cui il Myanmar fa parte, l’organizzazione continua a verificare la sua incapacità di spingere il regime al dialogo. Non a caso il prossimo summit dell’organizzazione, a maggio, è atteso ancheì per vedere qualche risultato dal dibattito in corso in diversi Stati membri sull’opportunità di riconoscere un ruolo al Governo di unità nazionale (Gun) in clandestinità, formato in maggioranza da esponenti della Lega nazionale per la democrazia di Aung San Suu Kyi. Sul fronte della crisi, intanto, arrivano conferme che in diverse aree sotto il controllo delle milizie etniche, sono queste – in molti casi rodate da decenni di conflitto contro la dittatura – a preparare gli uomini delle Forze di difesa popolare, in maggioranza di etnia birmana e coordinate dal Gun. Un segnale che il comune impegno sta creando una convergenza inedita tra le componenti etniche, sociali e politiche di un paese-mosaico.

STEFANO VECCHIA

IL MYANMAR “SCOPRE” IL CONTAGIO

Il Myanmar (già Birmania) scopre il coronavirus, con tre casi registrati dal 23 marzo dopo che varie fonti avevano indicato l’individuazione di almeno un cittadino cinese positivo già a fine gennaio. Da allora, però i segnali del contagio erano stati limitati alla chiusura della maggior parte dei posti di frontiera terrestri e a un filtro sempre più stretto ai voli in arrivo. Fino all’annuncio, la settimana scorsa della quarantena obbligatoria per passeggeri provenienti da 14 paesi, misura incrementata il 25 marzo con la decisione di imporre 14 giorni di isolamento per tutti – birmani e stranieri – autorizzati a sbarcare nei soli aeroporti di Yangon, Mandalay e la capitale Naypyitaw.

Il paese è però tutt’altro che sigillato e questo vale per le decine di migliaia di birmani emigrati per lavoro all’estero, a partire da quelli nella confinante Thailandia che cercano di rientrare prima che Bangkok dichiari il blocco totale, ma anche i cinesi, a cui si deve il maggior flusso turistico nel paese sommato a un gran numero di imprenditori, commercianti, consulenti e specialisti impegnati nella costruzione di infrastrutture.

Da sempre il rapporto tra il Myanmar e il vicino cinese è intenso e, sino alla fine del regime nel 2011, sostenuto dall’apparato militare che ancora oggi, nonostante il consolidamento di istituzioni democratiche con un ruolo essenziale garantito alla Premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi e alla sua Lega nazionale per la democrazia, conservano ministeri chiave, come quelli delle Risorse naturali e delle Frontiere, che garantiscono forti benefici economici e il controllo di aree strategiche.

In questo panorama si situa la difficile situazione del Nord-Ovest birmano. Ieri l’organizzazione non governativa Fortify Rights (FR) ha chiesto al governo la fine immediata di ogni restrizione all’uso di Internet negli stati Rakhine e Chin, svuotato il primo dell’etnia musulmana Rohingya da operazioni militari che la comunità internazionale ha denunciato come “genocidio” e il secondo che è campo di battaglia tra esercito e milizie etniche. Militarizzazione e censura impedirebbero, secondo FR, un’efficace azione preventiva e di cura in caso di epidemia conclamata.

Stefano Vecchia