INDIA CHIUSA PER COVID, POVERI A RISCHIO

L’India si avvicina ai 900 casi di contagio e ad oggi sono 19 le vittime accertate. Nonostante l’assedio ai supermercati nelle città e la pressione di milioni di migranti interni che cercano di tornare alle località d’origine, sembra reggere il blocco totale del paese, garantito da ingenti forze di polizia e militari. Il governo ha affiancato a questa misura drastica in vigore da mercoledì scorso un piano di sostegno alimentare e finanziario a favore di 800 milioni di abitanti, ma elevati sono i rischi che le difficoltà nella distribuzione di generi di prima necessità e la mancanza di fonti certe di reddito o dei documenti necessari per accedere agli aiuti possano pesare soprattutto sull’immenso settore informale (450 milioni di addetti stimati) e su due milioni di senza fissa dimora.

Le disuguaglianze economiche e le diverse possibilità si ripropongono nel sistema sanitario, con istituzioni di eccellenza destinate ai più abbienti mentre zone depresse del paese sono praticamente prive di servizi medico-assistenziali. Nelle congestionate aree urbane, già normalmente per la maggioranza dei poveri risulta impossibile accedere a cure adeguate.

Il governo copre, con l’1 per cento del prodotto interno lordo, il 27 per cento delle spese sanitarie (contro il 56 per cento della Cina). Dal 2018 è garantito l’accesso alla sanità di base per 500 milioni di indiani con un piano nazionale che coinvolge il settore pubblico e privato. Tuttavia, in vista dell’acuirsi del contagio, il governo ha chiesto alle strutture private di indirizzare le risorse disponibili al contenimento della pandemia, limitando quindi le possibilità di cura dei meno abbienti alla sola sanità pubblica. Le autorità hanno anche sollecitato a eseguire il test per individuare l’eventuale positività al coronavirus nelle strutture private al costo di 4.500 rupie (52 euro), ben oltre la possibilità di molti.

Stefano Vecchia

IL MYANMAR “SCOPRE” IL CONTAGIO

Il Myanmar (già Birmania) scopre il coronavirus, con tre casi registrati dal 23 marzo dopo che varie fonti avevano indicato l’individuazione di almeno un cittadino cinese positivo già a fine gennaio. Da allora, però i segnali del contagio erano stati limitati alla chiusura della maggior parte dei posti di frontiera terrestri e a un filtro sempre più stretto ai voli in arrivo. Fino all’annuncio, la settimana scorsa della quarantena obbligatoria per passeggeri provenienti da 14 paesi, misura incrementata il 25 marzo con la decisione di imporre 14 giorni di isolamento per tutti – birmani e stranieri – autorizzati a sbarcare nei soli aeroporti di Yangon, Mandalay e la capitale Naypyitaw.

Il paese è però tutt’altro che sigillato e questo vale per le decine di migliaia di birmani emigrati per lavoro all’estero, a partire da quelli nella confinante Thailandia che cercano di rientrare prima che Bangkok dichiari il blocco totale, ma anche i cinesi, a cui si deve il maggior flusso turistico nel paese sommato a un gran numero di imprenditori, commercianti, consulenti e specialisti impegnati nella costruzione di infrastrutture.

Da sempre il rapporto tra il Myanmar e il vicino cinese è intenso e, sino alla fine del regime nel 2011, sostenuto dall’apparato militare che ancora oggi, nonostante il consolidamento di istituzioni democratiche con un ruolo essenziale garantito alla Premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi e alla sua Lega nazionale per la democrazia, conservano ministeri chiave, come quelli delle Risorse naturali e delle Frontiere, che garantiscono forti benefici economici e il controllo di aree strategiche.

In questo panorama si situa la difficile situazione del Nord-Ovest birmano. Ieri l’organizzazione non governativa Fortify Rights (FR) ha chiesto al governo la fine immediata di ogni restrizione all’uso di Internet negli stati Rakhine e Chin, svuotato il primo dell’etnia musulmana Rohingya da operazioni militari che la comunità internazionale ha denunciato come “genocidio” e il secondo che è campo di battaglia tra esercito e milizie etniche. Militarizzazione e censura impedirebbero, secondo FR, un’efficace azione preventiva e di cura in caso di epidemia conclamata.

Stefano Vecchia

Come l’Asia affronta la pandemia

Focolaio primario della pandemia, l’Asia corre ai ripari con provvedimenti di urgenza isolando aree abitate oppure potenziando i sistemi sanitari e la coscientizzazione delle popolazioni. Tuttavia la preoccupazione è elevata, soprattutto per le realtà più afflitte da povertà, repressione politica o incompetenza. Diffuso è il timore che saranno le classi medie già falcidiate dalla crisi economica e i più poveri e indifesi a subire le conseguenze maggiori della pandemia.

I pochi casi ufficiali di contagio, da poche decine a qualche centinaio, con il numero massimo (900) in Malaysia accertati nei dieci paesi membri dell’Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico (Asean) che conta 630 milioni di abitanti, sembrano più frutto di sottovalutazione che di reale diffusione del Covid-19. Ovunque, ampie differenze di reddito e possibilità tra una esigua minoranza e la maggior parte degli abitanti, qui come altrove in Asia, non potranno che amplificare le conseguenze per i gruppi meno favoriti.

“Le problematiche abitative sono ora sulla linea del fronte contro la diffusione del coronavirus, avere una abitazione mai come ora può fare la differenza per la vita o la morte”. Con queste parole Leilani Farha, Inviato speciale delle Nazioni Unite per il diritto all’abitazione, ha sollecitato tutti i governi a prendere misure efficaci per evitare che altri vadano ad aggiungersi al gran numero di individui che vivono in condizioni abitative precarie (1,8 miliardi nel mondo) che li espongono ora maggiormente al contagio. A sua volta, un rapporto della United Nations Economic and Social Commission for Asia and the Pacific segnala con chiarezza i rischi di recessione in aree vulnerabili, al punto che la pandemia potrebbe più che raddoppiare il numero degli asiatici in povertà estrema (sotto 1,9 dollari al giorno) prima previsto in 56 milioni entro il 2030.

Si temono anche i rischi di involuzione democratica e la restrizione di diritti e libertà già ridotte o sotto pressione in diversi paesi. Non a caso, in una Hong Kong che registra un record di contagi di ritorno, in buona parte attribuibile al rientro di cittadini e stranieri dall’estero, il prolungato braccio di ferro tra democratici e governo locale (supportato da Pechino) è andato sottotraccia ma l’accademico e attivista Benni Tai parla dello stato di diritto attuale come di “un morto che cammina”. Altrove, come in Thailandia, Cambogia, Corea del Nord – la stessa Repubblica popolare cinese – a rischio sono anche regimi repressivi messi alla prova da un’emergenza che si associa alla recessione economica già in corso. Infine, crescono i timori delle minoranze religiose in realtà, come la Malaysia, il Myanmar o l’India, dove la crisi potrebbe incentivare xenofobia e suprematismo a base religiosa.

Stefano Vecchia

Asia: Emergenza coronavirus 19.03

AUSTRALIA e NUOVA ZELANDA sono gli ultimi tra i molti paesi che hanno chiuso l’ingresso ai non residenti.

GIAPPONE e THAILANDIA, tra gli altri, hanno invece imposto la quarantena all’arrivo.

GIAPPONE. Si alza di livello e ormai ha raggiunto i vertici politici, sollecitati anche dall’estero, il dibattito sul rinvio o la sospensione delle Olimpiadi e Parolimpiadi di luglio-agosto.

FILIPPINE. Prosegue la messa in sostanziale quarantena di metà della popolazione. Il governo giapponese ha deciso l’invio di 100mila kit per testare la presenza del coronavirus.

CINA e HONG KONG affrontano un crescente numero di casi importati dall’estero, in maggioranza cinesi di ritorno, 34 per la prima. Si parla di “seconda ondata” del contagio, peraltro prevista in casi di pandemia.

COREA DEL SUD. Crescono i mini-focolai (ad esempio in case di riposo o comunità religiose) con un rialzo nel numero dei contagi quotidiani dopo alcuni giorni di stasi.

GLOBALMENTE salgono a 17mila miliardi le perdite borsistiche e, con le nuove iniziative di quantitative easing della Banca centrale europea, a 1.900 miliardi i provvedimenti anti-crisi economica attivati finora nel mondo.

INDONESIA. Alle prese con la richiesta frenetica di provvedimenti di contenimento del contagio e di test, ma con 270 milioni di abitanti e strutture sanitarie già inadeguate, è ora uno dei paesi a maggior rischio e, con 19 decessi, quello finora più interessato da casi letali nell’Asia sudorientale.

MALAYSIA. La federazione si conferma il paese con finora il più alto numero di contagi del Sud-Est asiatico, 900.

VIETNAM. Avviato un piano di contenimento della mobilità, a partire dalla capitale Hanoi.

Stefano Vecchia

Asia: Emergenza coronavirus 18.03

GIAPPONE. Il premier Shinzo Abe tentenna sull’emergenza, che darebbe un duro colpo a un’economia in affanno. Olimpiadi in sospeso, con il Comitato olimpico francese che ha dato al paese un ultimatum a fine maggio per la decisione definitiva.

COREA DEL SUD. L’arcidiocesi di Seul, nella cui area vanno emergendo cluster di contagio ha deciso la chiusura delle chiese.

MYANMAR. Il governo ha suggerito alla controparte thailandese di disincentivare il rientro di due milioni di lavoratori durante le celebrazioni del Capodanno che iniziano, come nel paese confinante e in altri della regione, il 13 aprile. La Thailandia ha già posticipato ogni evento a data da definire.

INDIA. La chiusura preventiva del paese verso l’estero sembra funzionare, ma è ovviamente difficile valutare la situazione in una realtà tanto vasta e complessa come quella indiana. Davanti all’emergenza, finiscono in sordina altri eventi nazionali, incluse le proteste contro la nuova legge sulla cittadinanza attive da dicembre e le loro conseguenze di ordine pubblico e politiche.

Stefano Vecchia